Joker: quel ghigno che ti inchioda nel film più furbo dell’anno

Non mi sono mai nutrito-forse a torto-di fumetti e di cinecomics, ragion per cui non riuscirei, nemmeno volendo, a porre in relazione Joker di Todd Phillips con i vari film dedicati a Batman, visti comunque quasi tutti, con la trilogia di Nolan da inserire tra i capolavori dell’intera storia cinematografica. Joker per me si lega con il personaggio della saga di Batman più per una questione di marketing e come punto di partenza per giustificare, a livello produttivo, la creazione stessa del film. Per spiegarmi meglio dico che l’opera di Phillips vive benissimo anche senza la saga del supereroe di Gotham City. Perché non è un’esegesi di quella, piuttosto un’ idea ambiziosa di carpire un personaggio contradditorio e maledetto da una saga popolare e inserirlo in una storia a se stante che brilla di luce propria. L’operazione funziona: Phillips non firma un capolavoro ma una di quelle messe in scena che esaltano l’ipnosi. Difficile distrarsi nei suoi 122′ di durata anche se poi, a mente fredda, capisci che il regista è sì bravissimo ma allo stesso tempo è pure un furbo matricolato, perchè gioca con gli stereotipi del noir, con atmosfere << antiche >> per cercare di offrirci ciò che desideriamo: tenerci in una sorta di << apnea controllata >>, come il subacqueo che sa alla perfezione come e quando immergersi di più o risalire. Joker è un grande film, ma non sorprende. Il suo soggetto è apparentemente classico , fatto apposta per esaltare l’istrionismo di un eccezionale Joaquin Phoenix che- Luca Marinelli ci perdoni- avrebbe meritato la Coppa Volpi per la migliore interpretazione alla Mostra di Venezia dove invece ha prevalso il film e non il suo iconico interprete. Avendo avuto la fortuna della visione in lingua originale e in pellicola 70mm-solo due le copie distribuite in Italia- alla Cineteca di Bologna posso dire che Phoenix regala una prova attoriale da stella di prima grandezza: intensa, profonda, varia e mai monocorde che prende spunto da un nobile modello quale è L’Uomo che Ride di Victor Hugo. Questa si un autentico capolavoro.

Joker quindi affascina e tramortisce. Mette lo spettatore di fronte alla normalità del male, un po’ come era accaduto in Too old to die young di Nicolas Winding Refn. Ma a differenza di quella recente operazione seriale, non ci sono colpi di genio improvvisi o brusche virate verso l’ironia o l’esagerazione. Gotham City per Todd Phillips è come la New York buia, cupa dove a farla da padroni già dall’incipit sono gli uomini e i ratti, chi subisce l’immondizia morale di pochi e chi se ne ciba. Fatiscenti sono le case, rassegnati i suoi abitanti. Arthur Fleck si inserisce nel contesto con le turbe di un novello Psyco e la maschera, finzione consapevole per celare il vuoto e creare un paravento. La sua risata è isterica, nervosa, solo di fronte a uno spezzone di Tempi Moderni di Chaplin troverà una sorta di normalità e non di spaventoso suono di morte. Il male che nasce dal caso sarà l’occasione di una rinascita; perpetrarlo con piacere una necessità per giustificare la tragedia di essere un umano. Phillips ci porta in un territorio dove le assonzanze con Taxi Driver e le citazioni dal film di Scorsese sono numerose. Ma a differenza del personaggio di Travis-de Niro in Arthur-Phoenix non c’è la fine di ogni speranza americana a causare il big bang. Travis si vendicava in nome di un nobile ideale di giustizia. L’esplosione irrefrenabile di violenza di Joker ricorda invece più da vicino quella del letterario American Psyco di Bret Easton Ellis o, inconsapevolmente, quella del cinematografico Tony Manero-Alfredo Castro di Pablo Larrain. Cambia, rispetto al primo, il contesto sociale: Bateman è dell’upper class, Arthur vive nei bassifondi. Ma entrambi reagiscono al vuoto assoluto attraverso il piacere della violenza nei confronti dei simboli. Gli emblemi del consumismo per Bateman e quelli alla base del disagio mentale per Arthur. Del personaggio del film cileno, in Joker non c’è l’amoralità radicale bensì l’identificazione con un modello propugnato dai media; il John Travolta di Saturday Night Fever interpretato da Castro trova in Phoenix corrispondenza nella figura di Murray-De Niro, conduttore di un simil late show di successo. L’ambizione di diventare comico-anche questa traslata da Scorsese e dal suo Re per una notte– sembra più che altro un tentativo subliminale per tagliare ogni legame con la propria devastante realtà.

Come si può notare il film non brilla per originalità del soggetto: le motivazioni psicologiche di Arthur sono elementari, il suo personaggio stereotipato. Un individuo solo, psicologicamente ammalato con madre inferma anch’essa con parecchie rotelle fuori posto, (dis)inserito in una società disperata. Interessante piuttosto è come Phillips fotografa l’escalation di rabbia popolare, l’inarrestabile e acefalo vento rivoluzionario che tutto va a colpire. Il regista ha preso le distanze da una visione politica e probabilmente sarà così; però la violenza monta in progressione, è insita in ogni sguardo, in ogni movimento. Joker viene eletto come l’angelo sterminatore, il leader inconsapevole e involontario che aprirà la strada all’avvento di un altro vendicatore, il rovescio della medaglia, il Batman del domani. Gotham City nel film è Babele in decadenza, l’emblema della caduta dell’impero a cui si oppongono migliaia di maschere che ghignano. Forse è l’America oppure è solo un viaggio mentale di un Joker che esiste solo nella mente di Arthur, vista la capacità del regista di confondere le acque, di non rispettare i piani temporali, di portarci dentro e fuori una mente malata.

Joker è un film che ti inchioda, che avresti voglia di rivedere anche cento volte. Perché è il modo con cui Todd Phillips mette in scena il soggetto, ripetiamo elementare e non troppo originale, a determinarne il salto di qualità rispetto a un blockbuster tradizionale. La ricerca spasmodica dello stereotipo, l’infilarsi nella fluttuazione dei noir classici, ne fanno un’opera che, fortunatamente, nulla ha a che fare con molti cinecomics di oggi ma che tende a ripristinare le << vecchie >> regole dei film di genere offrendole in salsa contemporanea per montaggio, uso asfissiante delle musiche e, soprattutto, dando libero sfogo alle intuizioni artistiche dei suoi due interpreti: Joaquin Phoenix e Robert De Niro. In versione originale la bravura del primo scandisce ogni millesimo di secondo della pellicola. Il Joker di Phoenix spaventa, affascina, commuove, fa proseliti mentali, confonde, disturba. De Niro rivaleggia mostrando la leggerezza dei grandi nella sua migliore interpretazione da alcuni anni a questa parte. Joker è un film furbissimo, quasi cinico nello sfruttare in modo esasperato regole di attrazione cinematografica. Ci riesce benissimo: sembra un capolavoro ma non lo è. Eppure non vedi l’ora di rivederlo.

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