The Irishman:quel senso di morte da cui nasce il grande cinema

È MERAVIGLIOSO The Irishman, il film di Martin Scorsese prodotto da Netflix dove Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci rivaleggiano in bravura e l’autore italostatunitense fotografa con lucida malinconia non tanto la fine di un’epopea cinematografica quanto l’avvicinarsi di quella fine definitiva che appartiene a tutti e che forse solo il cinema con le sue storie, i suoi volti ha la possibilità di fermare, bloccare, fissare prima del buio. Perché questo film che si avvicina alla perfezione sembra una dichiarazione conclusiva d’amore, il tirare le somme di un’esistenza votata a immaginare uomini alle prese con la propria storia individuale, alla relazione tra questi e il loro tempo, al bilancio di vita che sa di beffa, quasi di inutilità. Scorsese e il suo cosceneggiatore Steven Zailland partono dal libro di Charles Brandt pubblicato da Fazi– titolo originale I heard you paint houses– dove le vicende di un piccolo manovale della mafia si intrecciano con la storia politica e sociale degli Usa dai primi Anni’50 fino all’inizio del nuovo secolo, ponendo soprattutto al centro il rapporto politica-mafia in gran parte del percorso storico americano, dall’elezione e poi assassinio di John Kennedy, al caso di Jimmy Hoffa e via dicendo. Solo che come accade in quasi tutti i film l’intelaiatura serve al regista per andare oltre. Prendere sì spunto ma operare in altre direzioni; nel caso di The Irishman creare un vero e proprio dramma che ponga al centro l’uomo, la sua ascesa, il suo effimero successo, il suo declino. Scorsese quindi ritorna ai temi che da sempre ne hanno contraddistinto il cinema, non solo la trilogia composta da Mean Streets, Quei Bravi Ragazzi, Casinò. Se usa un’altra volta ancora il mondo dei gangster è perché al proprio interno Scorsese vi trova un’epica precisa, un contenuto di cui l’autore si è appropriato da decenni. D’altronde chi ha letto la preziosa biografia-intervista di Richard Schickel pubblicata da Bompiani nel 2011 << Conversazioni su di me e tutto il resto >> sa già come la pensa Scorsese: non è l’intreccio ad interessarlo bensì il soggetto. Il primo per l’autore è sempre secondario al secondo. Si scava in profondità il personaggio non il fatto. Ed è ciò che accade in The Irishman.

La vita di tutti i gangster di The Irishman << è come è >> ; è un labirinto accettato in cui calarsi, perdersi, senza più ritrovarsi. Trascorre e si confonde il tempo, il suo andirivieni, così come passano sullo schermo sparatorie, assassini, previsioni di omicidi, intrallazzi; questa trama non trama potrebbe benissimo essere considerata alla stregua della miscellanea di un’intera storia del gangsterismo. Che non stupisce perché non è questo che interessa Scorsese. L’autore guarda ad altro, penetra nell’animo dei suoi protagonisti, al destino che si sono scelti, all’accettazione del ruolo e alla sua successiva interpretazione fino alle estreme conseguenze. È una discesa progressiva in un gorgo da cui nessuno potrà mai più uscire. Perché è l’etica dei gangsters: la produzione di male come unico fattore per garantire l’equilibrio delle rispettive normalità esistenziali. Martin Scorsese segue i suoi tragici << peccatori >> analizzandoli negli aspetti più intimi, nelle loro debolezze, nella consapevolezza di passeggiare ai lati di un crepaccio; li fotografa nel loro fallimento che diventa il requiem di un genere. Sono Angeli dalla faccia sporca chiamati alla fine a stilare il bilancio esistenziale: il tragico confronto con la solitudine morale e la consapevolezza dell’inutilità di ciò che è stata la loro esistenza. E di fronte lo spettro di una morte che, inesorabile, sta avvicinandosi. Scorsese è geniale nel descrivere il tramonto dei suoi << bravi ragazzi >>, nel disintegrare sul nascere qualsiasi speranza di riscatto. La condanna della umanità di The Irishman è insita nella coerenza radicale nei confronti di ciò che è stato da parte dei suoi protagonisti. La conseguente espiazione è la nuda, pura, cruda attesa della morte. Con nessun rimpianto e qualche rimorso ma solo da parte De Niro-Frank Sheeran che non a caso è l’io narrante, il protagonista principale e allo stesso tempo il fotografo disincantato di una generazione, la propria, di inconsapevoli dannati. Come già accaduto nei tre precedenti film dedicati ai gangsters, Scorsese gioca. Diceva a proposito di Quei Bravi Ragazzi : << Il gioco del film è di ignorare in qualche modo l’elemento di pericolo, e di fare finta che siamo in un film spensierato come quelli di Bob Hope e Bing Crosby, dove tutti pensano solo a divertirsi>> ( pg.241 di Conversazioni su di me e tutto il resto). Ecco in The Irishman sembra che tutto sia un grande e lungo gioco che dura 3 ore e 30 minuti. Ma, a differenza dei predecessori, c’è spalmato su ogni volto, insito in ogni battuta, scandito da ogni secondo il ghigno beffardo di una morte incombente, morale prima, fisica poi.

Nulla è sbagliato in The Irishman. Scorsese introduce la storia con un’immagine verticale e stretta, l’inquadratura da una porta di un ricovero per anziani. L’inizio del film è già la sua fine, come se l’autore sussurrasse allo spettatore di perdere tutte le speranze circa l’esito conclusivo della trama. Poi ci ubriaca di tempo vissuto e sognato, quello delle storie che lui stesso ascoltava da bambino nel proprio quartiere. Grazie all’uso della tecnologia ringiovanisce o invecchia a seconda della bisogna i suoi attori. Ognuno di loro determina, come cervello o semplice manovale, episodi fondamentali della vita americana; non a caso Scorsese e il suo fedele montatore, la sempre eccezionale Thelma Schoonmaker, spesso ricorrono a spezzoni dei telegiornali dell’epoca presa in considerazione per mettere a confronto e fare interagire le due verità, della cronaca e del romanzo. In tutto ciò appare chiara anche l’esigenza di omaggiare un altro autore che dalla fine dell’epopea gangster aveva tratto un film indimenticabile, troppo spesso sottostimato dalla critica più che dal pubblico: Sergio Leone e il suo C’era una volta in America con cui ci sono parecchi punti di contatto, il più evidente nella figura di Robert De Niro non solo come interprete comune ma per il senso di fallimento esistenziale che in entrambe le pellicole si porta appresso. A differenza dell’opera italiana, però, in The Irishman questo fardello è trattato alla Scorsese senza il ricorso al melodramma, con il divertimento che la fa da padrone per tre quarti del film con una serie di scene memorabili, intrise di battute a raffica e di piccoli, insistiti, suggerimenti che fanno capolino per ricordare allo spettatore che nonostante le apparenze non si è in presenza di una commedia brillante ma di una tragedia su cui il regista ha steso la sua vena ironica e beffarda, la sua intelligenza, il suo genio.

The Irishman dura 210 minuti, tre ore e mezza. Bevute come una birra fredda d’estate quando si è assetati. C’è ritmo, c’è un cambiamento continuo, ci sono le interpretazioni. Difficile, quasi impossibile, stabilire chi sia il migliore all’interno di un’opera che resterà pietra miliare non solo nella cinematografia dell’autore italostatunitense. Al Pacino è memorabile nel calarsi nella parte di Jimmy Hoffa: esigente come << il generale Patton >>-De Niro dixit-, fragile e tenero, sincero e volitivo, assetato di potere, re aggrappato al proprio sindacato, ingenuo e vendicativo. Joe Pesci è altrettanto bravo nell’interpretare Russell Bufalino, il gangster spietato dai modi gentili, l’ago della bilancia, l’uomo del compromesso e della morte, il burattinaio. E Robert De Niro scandisce ogni scena inseguendo un ideale di lealtà nei confronti di chi è più potente di lui. Un perfetto manovale del crimine, l’ingranaggio necessario e fondamentale, l’uomo che vive sporcandosi le mani sapendo già che non ci sarà nessuna salvezza, nessun perdono. È colui al quale il destino ha concesso la sopravvivenza e il profondo senso di un fallimento radicale. Come uomo, come padre, come amico. Più defilati ma non meno basilari sono i tanti altri che Scorsese fa girare a mille: Harvey Keitel, Stephen Graham, Bobby Cannavale, Chuckie O’Brien, l’ottima Anna Paquin-i cui silenzi valgono intere pagine di battute e chi vedrà il film capirà il perché- Stephanie Kurtzuba e via dicendo. È cinema di grandi attori e di un maestro. Martin Scorsese ha deciso di far calare il sipario sugli antieroi << sognati >> da bimbo e forse su un’epoca della propria vita; erano personaggi usciti dalle narrazioni di quartiere o dalle cronache che in qualche modo coinvolgevano indirettamente anche la sua stessa famiglia, il suo immaginario, che gli permettevano di inventarsi storie e di disegnarle per sconfiggere la solitudine e allontanare le difficoltà. Lo ha fatto con un film capolavoro. Il sogno è finito. Non questo cinema; non il suo cinema.

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