Brevi note su alcuni film del Feff23

Blue, un buon tema irrisolto

Blue di Keiseku Yoshida. Ci si aspettava di più da questo film giapponese. Lo spunto, interessante, era quello di mostrare il mondo della boxe dalla parte dei perdenti, di coloro che sul ring si siedono nella postazione blu e non in quella rossa che spetta ai favoriti dei match. Il regista narra la storia di tre ragazzi: un potenziale campione che sa di avere una carriera a termine causa danni cerebrali, un giovane imbranato che vuole sembrare pugile per far colpo sulle ragazze e uno sconfitto perenne che è il miglior allenatore e sparring partner nella palestra dove i ragazzi si allenano. C’è la storia d’amore irrisolta, la relazione di amicizia profonda e di inimicizia ma tutto si ferma in superficie, nonostante l’affascinante finale che lascia aperta la storia di questi fallimenti a ogni interpretazione. Più televisivo che cinematografico e un’occasione sprecata.

My Missing Valentine, giovanilistico e troppo lungo

My Missing Valentine di Chen Yu.hsun. Viene da Taiwan questa commedia giovanilistica in cui una ragazza goffa e un pelino sfigata si risveglia abbronzata e senza alcun ricordo il giorno dopo San Valentino. Lunghissimo, 119′, infarcito di ironia trita e ritrita e di situazioni prevedibili, con una parte centrale in cui la storia si tramuta in una favola ben poco realistica e quindi non credibile, non riesce a scaldare gli animi e quando tutto è concluso finalmente tiriamo un sospiro di sollievo. Preferiamo il Tempo delle Mele.

Limbo, la devoluzione di una metropoli

Limbo di Soi Cheang. Due poliziotti, quello apparentemente cattivo e isterico e quello buono e educato, danno la caccia a un misterioso maniaco che trancia le mani alle ragazze e le violenta prima di ucciderle. La storia è come tante altre e la regia naviga tra noir e horror, non sapendo per parecchio tempo se virare da una o dall’altra parte. Alla fine verrà preferito il Grand Guignol. Eppure il film, presentato anche alla Berlinale, affascina e non è del tutto sbagliato. Soi Cheang costruisce una metropoli immaginaria che fotografa alla perfezione la devoluzione architettonica e sociale che sta incombendo sul far east, in specie Hong Kong. Limbo è un film di ambientazione beckettiana, dove gli individui vivono nel sudiciume, essi stessi scarti di una società che non ha più nulla da offrire. La regressione umana si abbina a quella metropolitana, dove tutto è rifiuto, è trash nel senso letterale, l’immondizia l’unica parte di suolo da calpestare. Splendide fotografia e scenografia, più contradditoria la sceneggiatura. Il bianco nero rafforza l’ambientazione, il continuo annusare parti anatomiche putrefatte da parte del detective amplifica la percezione sensoriale dello spettatore. Piaccia o no ma è un film interessante pur nella violenza cieca del prefinale.

Assassins, ottimo docufilm sull’omicidio di Kim Jong-nam

Assassins di Ryan White. Viene dal Sundance e da un autore già noto per i suoi lavori sia su Netflix, The Keepers sull’assassinio di Catherine Cesnik, sia su HBO, The Case Against 8, sulla battaglia legale contro l’emendamento di modifica della costituzione californiana in materia di matrimoni, questo docufilm fatto benissimo e molto interessante. Il 13 febbraio 2017 Kim Jong-nam, fratellastro del dittatore nordcoreano Kim Jong-un , venne assassinato con uno spray a gas nervino all’aeroporto di Kuala Lumpur da due ragazze che credevano di interpretare una parte in un prank show. Il caso è analizzato a 360° andando direttamente alle fonti con testimoni, giornalisti, gli avvocati di parte, filmati dell’epoca, le registrazioni audio del processo e interviste alle due ragazze dopo la loro liberazione. È uno spaccato pragmatico di una situazione politica e sociale in cui li convitato di pietra è il regime nordcoreano. Rigoroso, informato, mai banale e montato con ritmo, Assassins è uno docufilm da prendere come esempio per chiunque voglia realizzare il giornalismo d’inchiesta.

Like Father And Son, la Cina più autentica in una storia vecchia

Like Father, And Son di Bai Ziquiang. Nulla di nuovo sotto il sole d’Oriente eppure si tratta di un film importante. La storia è già stata vista mille volte al cinema. Un venditore ambulante incontra un bimbo il cui padre ha abbandonato la famiglia per trovare lavoro in una metropoli in ricostruzione. I due partiranno alla ricerca del genitore, mettendo progressivamente da parte le rispettive ritrosie nei confronti l’uno dell’altro.Se la narrazione e il finale sono prevedibili, non così è il film che ci mostra la Cina più autentica, lontana dal lusso di Shanghai, una nazione in cui le sacche di povertà sono immense quanto gli spazi delle zone rurali. Bai Ziquiang , la cui provenienza dal documentario è vincente, pone il proprio obiettivo sulle tante contraddizioni del Paese, su quello stato confusionale già descritto mirabilmente da Jia Zanghke nelle sue opere. Anche in Like Father And Son ambulante e bambino sono vittime di un contemporaneo in cui la trasformazione coatta del sistema economico e strutturale cinese ha creato divisioni familiari, perdita di certezze. Ognuno infatti vive il proprio tempo con l’unico scopo della sopravvivenza, consapevole di esistere all’interno di qualcosa sospeso tra passato e un futuro indefinito e lontano dalle radici. Su questo fronte il film, delicato e mai stucchevole, spesso divertente, è ottimo così come le interpretazioni di Hui Wangjun, il venditore, e dello straordinario ed espressivo Bai Zeze, Maoudou il bimbo.

Dear Tenant, un solido melodramma con troppa carne al fuoco

Dear Tenant di Yu-Chieh Cheng. C’è il compositore Lin che ha adottato il figlio, Yo-Yu, del suo amante scomparso. Si adopera come domestico e infermiere nella casa della madre di quest’ultimo. Quando la donna morirà l’uomo si trasformerà in una sorta di Giobbe, dovendo subire le accuse di omicidio frutto di pregiudizio sessuale della polizia di Taipei e quelle del fratello dell’amante, interessato ai soldi più che al resto. Dear Tenant per oltre metà dei suoi 106 minuti regge magnificamente perché il regista, anche autore della sceneggiatura, mischia con grande equilibrio melodramma, suspence, problematica gay e sentimento. Poi aggiunge, verso il finale, un inutile appensantimento, andando a ritroso sulla storia d’amore e perdendo il filo del discorso. Merita comunque la visione sia per la intensa interpretazione di Morning Tzu-Yi Mo, Lin, e del dodicenne Run-yin Bai, sia per la grazia con cui l’autore affronta le varie tematiche che mette in campo.