Killers of the Flower Moon: l’ultimo Scorsese ripetitivo, noioso, senza ritmo. In altre parole insopportabile

Anche i maestri inciampano

Killers of The Flower Moon è il peggior film di Martin Scorsese. Lo scrivo con amarezza perché, si sa, Scorsese non è solo un Maestro ma è colui che anche nelle sue prove minori ha sempre saputo donare spunti, riflessioni, colpi di genio. Questa volta non è accaduto e non solo per l’insopportabile lunghezza della sua opera più recente. La durata, se supportata da argomenti e storie forti, non è mai stata un problema. Il guaio è che Killers of The Flower Moon non riesce mai a decollare. Il suo è ritmo a passo di lumaca su un terreno piatto come un’autostrada appena asfaltata. Non accettabile nemmeno per chi mettiamo ha adorato la serie tv-in realtà un vero e proprio film- meno veloce della storia, Too Old to Die Young di Nicolas Winding RefnToo Old to Die Young:il capolavoro seriale di #NWR che ipnotizza e convince– o divorato uno dei più importanti romanzi americani del XX secolo, quel Paradise Falls 1 e 2 di Don Robertson(1605 pagine tra Paradiso e Inferno) che come il film di Scorsese vuole essere, con bel altro spessore, allegoria non solo della storia statunitense quanto la descrizione di una società avida mossa solo dalla sete di denaro e di potere.

Lavarsi la coscienza con i nativi americani

Tratto dal libro Gli Assassini della Terra Rossa di David Grann il fim ha avuto una gestazione complessa. Il parto è avvenuto con una sceneggiatura creata quasi a misura di sé stesso da DiCaprio e firmata, oltre che da Scorsese, da Eric Roth. Non è bastata per dare un senso compiuto al film. Killers of The Flower Moon, infatti, galleggia in apnea dall’inizio fin quasi alla propria conclusione, dove finalmente appare il tocco del genio Scorsese. Da un lato indugia a una sorta di lavaggio di coscienza per ciò che negli Anni’20 i coloni statunitensi fecero nei confronti delle popolazioni autoctone in Osage County. Dall’altro procede con uno sfiancante elenco di omicidi ideati dalla ditta De Niro, DiCaprio, Sheperd, fiaccando ben presto la pazienza degli spettatori. Non esiste cambio di ritmo, la regia ripete il solito canovaccio, in cui si innesta la storia d’amore tra il bel Leo e la bravissima Lily Gladstone. Le intenzioni sarebbero anche buone ma è proprio la potenza dissacrante del cinema di Scorsese a mancare. Con un deciso taglio di inutilità in sede di montaggio, il fim avrebbe guadagnato in armonia, potendo quindi graffiare e cogliere il bersaglio. Invece non accade. È bloccato tra belle immagini-ci mancherebbe altro- e ripetizioni di ripetizioni. Troppe.

Empatia, questa sconosciuta

Killers of The Flower Moon manca di empatia; non coinvolge, non permette di provare né simpatia né antipatia per i suoi personaggi. De Niro ripropone il suo ghigno malefico, restando in una sorta di comfort zone recitativa, ovviamente di alta classe. Più interessante, anche per le numerose contraddizioni del proprio Ernst Burkhart, la prova di Leonardo Di Caprio. È un perfido e ambizioso tontolone, maneggiato da zio De Niro, che a poco a poco cadrà in una spirale psicologica devastante. Molto convincenti sono soprattutto i silenzi di Lily Gladstone: l’attrice di ascendenze native americane sfrutta lo sguardo, gli occhi, la postura per esprimere dubbi e amore, ricerca di verità. È lei l’autentica reginetta del film; l’unica a catturare la partecipazione di chi osserva. Ma non è sufficiente per salvare Killers of The Flower Moon dalla bocciatura. Perché non esiste la forza dello scontro tra personalità nemmeno nelle scene in cui questo avrebbe potuto offrire un cambio di registro. È film monodimensionale.

Se il male è algido

In Conversazioni su di me e tutto il resto, splendido colloquio biografico scritto da Richard Schickel e pubblicato da Bompiani nel 2011, Scorsese analizzava gli anni della propria gioventù e non solo i film da lui creati. Parlava delle continue liti con il padre, delle riconciliazioni, del fascino avvolgente e respingente dei gangster << gente potente, al di sopra della legge >>. Ma sempre l’autore italoamericano poneva l’accento sui contrasti, sulla lotta tra bene e male che è poi il leit motiv di quasi tutti i suoi film. In Killers of The Flower Moon manca proprio questo confronto: non ci sono buoni, c’è solo male. Un male travestito da regalie e perpetrato con sterili quanto ben poco raffinati omicidi. È male che incede come l’ossessionante giro di basso della colonna sonora di Robbie Robertson, scomparso tre mesi dopo il lancio del film a Cannes, presente con la propria cupezza in tutta la prima parte del film. Male da osservare e non sentire. Male indifferente. Una visione di male che non lascia l’amaro in bocca, che resta lì sospeso nello schermo. Algido come il film che vorrebbe descriverlo.

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