El Conde: non funziona il dissacrante horror di Pablo Larraín sul vampiro Pinochet

L’eredità di una dittatura sotto forma di allegoria

PABLO LARRAÍN ritorna a parlare del suo Cile ne El Conde, il film a cui è stato attribuito il premio per la sceneggiatura alla recente mostra veneziana. Lo fa come nelle sue migliori tradizioni riflettendo più sulle conseguenze di ciò che è stata la dittatura di Augusto Pinochet che sulla figura stessa del dittatore. Non bisogna quindi farsi trarre in inganno dalla messa in scena, in cui Pinochet è centrale nel ruolo di un contemporaneo vampiro che anela alla propria morte. In realtà a Larraín interessa l’eredità storica lasciata da una delle più controverse figure del’900. È un discorso che l’autore cileno ha già affrontato in quasi tutte le sue opere migliori a partire dal meraviglioso esordio di Toni Manerohttps://guidoschittone.com/il-cile-vuoto-di-raul-peralta/-per poi approfondirlo in modo ancora più esplicito con Post Mortem-https://guidoschittone.com/autopsia-di-una-nazione/ No, i giorni dell’arcobalenohttps://guidoschittone.com/la-sottile-riflessione-sulla-storia-di-pablo-larrain/-e soprattutto con El Clubhttps://guidoschittone.com/el-club-larrain/.

In El Club i prodromi di El Conde

È

proprio con El Club, magnifica opera realizzata nell’ormai lontano 2015, va fatto a parer mio una sorta di confronto. Perché allora quel film fu una perfetta allegoria di un Cile ancora in preda dei propri fantasmi, in cui nessuno poteva dirsi innocente. La cupezza dei colori usati allora viene in El Conde portata alle estreme conseguenze con l’uso di un bianco e nero splendidamente fotografato da Edward Lachman così come quel senso di isolamento scenografico qui è amplificato negli esterni. Il mondo di Larraín è una terra di fantasmi in cui i morti vivono e sopravvivono e i vivi subiscono per impotenza. El Conde si inserisce quindi come ideale proseguimento più di El Club che di No, i giorni dell’arcobaleno, in cui l’autore cileno rifletteva sulle speranze-tradite-di un cambiamento. Purtroppo l’idea iniziale del film premiato a Venezia a poco a poco si dissolve, diventando una sorta di dark comedy pasticciona, in cui i numerosi lampi di genio propri di uno dei miei autori preferiti vengono isolati da una scrittura-ci si domanda perché è stata premiata- monotona che rischia di trasformare in noia le migliori intenzioni del proprio autore.

Cile metafora di tutto il sudamerica

Per Larraín il Cile è il simbolo dell’intero continente. Nazioni di <<orfani contadini>> trasformati dalle dittature in <<eroi di avidità>> come sono proprio i figli di questo immaginario Nosferatu-Pinochet giunti al capezzale del padre per spartirsi l’eredità. La chiamata a correo non risparmia nemmeno l’istituzione religiosa:l’alter ego del dittatore-vampiro è una novizia che dovrebbe scacciare il diavolo che è in lui. Ma il protagonista è vuoto– << cercano il diavolo in me, ma io non ho nulla dentro, sono vuoto>>- e la chiesa muovendosi dietro la figura della giovane suora non fa altro che professare altra avidità. È l’ambiguità del potere, capace di generare altri potenziali vampiri. Un discorso già compiuto dal regista cileno che qui si incaglia senza evolvere nulla di ciò che in precedenza aveva creato. Ed è un peccato perché l’estetica di El Conde affascina e a volte ipnotizza così come gli omaggi visivi resi al Nosferatu di Murnau, a Stalker e Solaris di Tarkovskji, al Vampiro di Dreyer. Ma tutto ciò non è bastato per eliminare il rischio di aver relegato i mostri di El Conde in una statica parodia.

Condividi!