Kim Jin-young con l’ansia da prestazione
ALLA SUA PRIMA prova nel lungometraggio la sudcoreana Kim Jin-young tradisce tutto ciò che accomuna gli esordienti. Pone infatti troppa carne sul fuoco e alla fine priva un film dall’ottimo potenziale di una coerenza e di una fluidità narrativa che ne avrebbero fatto un successo sicuro. Perché The Other Child di frecce al proprio arco ne avrebbe: le interpretazioni sono magistrali, l’estetica pure. Il problema è che la giovane regista si è fatta prendere la mano, cercando di amalgamare fin troppe questioni che vanno dall’elaborazione di un lutto alle ossessioni religiose fino alla discriminazione allegorica delle diversità. In più i modelli di riferimento alla lunga diventano chiari con il risultato che il piatto servito viene gustato più per l’oggettiva bellezza della forma che per il proprio sapore. Un po’come quelle torte bellissime esposte in pasticceria che poi procurano pesantezza di stomaco perché strapiene di panna e di burro.
Quando i ciechi possono vedere oltre
È un vero peccato perché l’inizio di The Other Child promette bene, tanto che sulle prime ti sembra di essere dalla parti di Kore’eda con un bimbo destinato alla cecità adottato dalla famiglia del reverendo protestante di una piccola comunità. Grazie a lui, i coniugi sperano di lenire il dolore per la perdita di uno dei quattro figli, malato e costretto in carrozzella e annegato misteriosamente. È chiaro che ben presto questa nuova presenza nella casa andrà a minare i già fragili equilibri delle relazioni interpersonali tra marito e moglie e gli altri tre figli. Perché il piccolo Isaac ode rumori e vede presenze misteriose nella casa pur essendo cieco. A poco a poco, nella migliore tradizione dell’horror, tutti quanti resteranno soffocati da un gioco al massacro in un crescendo di avvenimenti che dureranno fino alla conclusione. Fin qui nulla di male perché la regista è brava nel tratteggiare la psicologia dei protagonisti. Semina indizi, si concentra soprattutto su madre e figli, fa comprendere come dietro quella morte misteriosa non ci sia la casualità. Purtroppo, però, vuole esagerare, perdendo alla fine il filo del discorso iniziale.
Tra esorcismi, rimorsi, e lutti da elaborare
IL PROBLEMA di The Other Child è infatti quello di voler abbracciare troppe tematiche: se l’idea di partenza dell’autore pur non essendo nuova aveva una propria valenza, il vero diavolo si annida nel nostro subconscio, è lo svolgimento che spesso lascia perplessi. Kim Jin-young ci parla di un’elaborazione di una perdita attraverso facili stereotipi. Sarebbe bastato lasciare che i suoi personaggi si confrontassero con la loro coscienza. Non che questo non ci sia nel film: anzi ne è la parte migliore ma viene depotenziata da un eccesso di argomentazioni. C’è una feroce critica a una chiesa che non sembra voler abbandonare il mondo del preconcetto e della superstizione; ci sono esorcismi inutili, extrema ratio per cercare di spiegare i comportamenti non codificati e l’uso del diverso, un cieco o un ragazzo in carrozzella, per mandare in crisi un’artificiale armonia di famiglia. È un accumulo che indebolisce invece di rafforzare. Almeno tre abbozzi di film all’interno dello stesso. Così quello che poteva trasformarsi, con le dovute proporzioni, in un nuovo The Wailing-del film capolavoro di Na Hong-jin ho scritto qui https://guidoschittone.com/ftm-film-fuori-tempo-massimo/-si trasforma in un patchwork e ripeto è un peccato.
Kyung Da-Eun è un’attrice bambina straordinaria
The Other Child offre il meglio nella prova dei propri attori. Park Hyo-ju, la madre, è molto credibile; vive un’esistenza di rimpianti che rischiano di tramutarsi in rimorsi. La sua è una discesa progressiva nel proprio subconscio che trova l’alter ego nella figlia maggiore, la straordinaria Kyung Da-Eun. Un vero mostro di recitazione a dispetto dell’anagrafe, è nata nel 2011, capace di prendersi la scena fin dai primi istanti, attraverso una serie di repentini cambiamenti psicologici. Lei e la madre sono davvero molto credibili in un cast che in ogni caso non tradisce le attese. The Other Child ha anche il merito di essere bello e girato con mano ferma. È molto efficace quando la regista si affida alle immagini e agli esterni dove le dissolvenze nebbiose procurano ansia e incutono timore. Sarebbe bastata una direzione precisa nella scelta dello script per farne un gioiellino. Purtroppo questa volta il diavolo si è nascosto nei dettagli del film. Sarà, mi auguro, per la prossima.