Triangle of Sadness: graffia e diverte ma non c’è nulla di nuovo nel film di Ruben Östlund

Un simil Parasite in salsa nordica

Ruben Östlund deve avere ben chiari i tanti modelli cinematografici a cui riferirsi. Perchè quando viene a mancare, almeno in parte, l’ispirazione, la conoscenza del passato diventa un valida alleata della creazione. È il caso della sua ultima fatica Triangle of Sadness che pur avendo vinto la Palma d’Oro a Cannes non convince del tutto. Chiarisco subito che il film mi ha fatto ridere fino alle lacrime, come credo accadrà a tutti coloro che andranno a vederlo. Ma al di là di quello e degli immancabili colpi di genio dell’autore svedese c’è qualcosa che non funziona, che non stupisce. È la sensazione che il discorso sociopolitico messo in piedi sia già stato affrontato da una miriade di suoi colleghi, a volte in peggio, altre in meglio. Primo esempio che mi viene in mente l’amato Parasite che proprio a Cannes ricevette lo stesso riconoscimento. C’era ben altro spessore e più o meno, tralasciando la regionalità con relative implicazioni allegoriche sulla diaspora coreana, il succo era identico: cosa accade al terzo stato quando può finalmente passare dall’altra parte della barricata e prendere il sopravvento su chi fino ad allora lo ha dominato? Ecco in Triangle of Sadness la situazione è simile, con la differenza che lo scambio di ruoli avviene su un’isola greca e che tutto sommato i ricchi trovano persino divertente farsi comandare da chi fino a qualche giorno prima era una sorta di sottoposto sociale.

Vacuità a scandire il nostro tempo

IL MONDO di Östlund è la nave in crociera carica di vacuità, quella dei plurimiliardari che si lavano la coscienza creando associazioni benefiche mentre producono bombe a mano , quella di chi ha fatto i soldi vendendo << merda >> o di chi vive questo vuoto intellettuale in modo professionale come i due influencer, che dell’arte del nulla hanno fatto il loro mestiere, vivendo a scrocco. Sotto di loro non si salvano nemmeno gli uomini e le donne dell’equipaggio, il famoso popolo intermedio, sottomesso al ricco ma forte con il debole, sia esso un marinaio o un domestico. È il naufragio della società occidentale condensato in 144 minuti in cui Östlund dona ai suoi personaggi il proprio profondo disprezzo. Li odia, li distrugge, li massacra attraverso allegorie graffianti, li mette in ridicolo ma corre il rischio di trasformare l’ironico in comico, la riflessione in pura messa in scena. Divertente ma essa stessa vacua come i suoi protagonisti che rischiano di diventare simpatici anche agli spettatori. Più forma che sostanza. Il mio amato Marco Ferreri, non c’è solo un chiaro rimando alla La grande Abbuffata ma anche una scena quasi presa a nolo da Famiglia Felice e altre a Come sono buoni i bianchi, questo disprezzo lo rendeva palpabile. Östlund no. Per non parlare poi di Bunūel, un altro che a queste tematiche dava del tu. Ma dalla vita e dal cinema non si può pretendere tutto.

Ottima e geniale la prima parte poi si perde

Triangle of Sadness promette molto bene in tutta la prima parte: sono i tanti minuti in cui ritroviamo l’originalità di Ruben Östlund, autore che definisce spazi inusuali. Il film, diviso in capitoli, si apre all’interno di uno stanzone in cui come insetti in una teca modelli attendono la prova del nove del casting. Viene calcata la mano sulla disparità di trattamento economico tra donne e uomini, è un dietro le quinte di un Glamourama ellisiano con l’immediata enunciazione che si parlerà di lotta di classe e di genere. Per farsi fotografare da marchi di prestigio bisogna apparire corrucciati. Per la moda da grande magazzino sorridere, sembrare felici. È strepitoso poi il seguito con una scena magistrale che parte da un ristorante e si conclude nella stanza di hotel in cui dormono i due influencer che discutono su chi doveva pagare il conto della cena. Sembra una lunga sequela di no sense, invece rappresenta il piatto forte della Palma d’Oro. Poi si passa al capitolo della crociera e si entra nel graffio definitivo, lungo, dissacrante, molto divertente, in cui spicca un capitano ubriacone-bravissimo Woody Harrelson– che fa risuonare le note dell’Internazionale perché è marxista più che comunista e Östlund presenta, quasi fosse cinema da camera, i vari personaggi da usare come marionette. Ma è il capitolo finale che fa acqua, nonostante situazioni grottesche ma abbastanza scontate che si susseguono nell’isola dei naufraghi. E qui scatta il deja vu di cui si è trattato prima.Così noi restiamo lì come il personaggio interpretato da Iris Berben, immobilizzata per un ictus che capisce ma non riesce che a pronunciare una sola frase:In Den Wolken, nelle nuvole osservando impotenti lo sfacelo del nuovo millennio.

È il fim più debole della trilogia

L’OTTIMA prova di tutto il cast, in cui spiccano Zlatko Buric-indimenticato protagonista dei tre Pusher di N.W RefnHarris Dickinson e la deliziosa Charilbi Dean, scomparsa giovanissima questa estate, non colma però le lacune di un’opera che appare la più fragile della trilogia composta da Forza Maggiore, The Square-la migliore e più complessa- e appunto questa. Perché manca a Östlund il coraggio di andare oltre la propria comfort zone. Non c’è, se non nella prima parte, in Triangle of Sadness quella libertà espressiva caratterizzante le opere precedenti. Come se l’autore abbia voluto dare un colpo al cerchio, la forma, e alla botte, la sostanza. Per compiacere e compiacersi più che per disturbare. Insomma con il freno a mano tirato.

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