Quel cinema grottesco che ci parla della vita
I MELOGRANI vengono lanciati a sasso contro le finestre di una catapecchia di un bancarottiere. Centrano bersagli umani come fanno le bombe a mano. Altre volte a prendere di mira quella specie di baracca è un filosofo creditore che ” ha cambiato schema”. Perché nella vita si può anche truffare un filosofo sopratutto se è ” l’illusione ad avermi fregato “. Un poeta appena uscito dal manicomio vorrebbe aiutare l’amico fraterno signor Xu, al quale il bancarottiere ha ucciso il cane e se lo è pure mangiato, per organizzare una vendetta coi fiocchi. Gli dice che ” ho dei punti forza unici“. Come risposta Xu pone la domanda “di che aiuto può essere un poeta?”. E l’altro urla: “ho un disturbo mentale. Lo considereresti un punto di forza?”. Benvenuti nel modo di fare cinema del cinese Jun Geng che con questo Manchurian Tiger ha trionfato al festival di Shanghai del 2021 e ha entusiasmato coloro i quali adorano l‘assurdo che cerca di ritrarre quella follia che si chiama vita.
L’adultero, il poeta, il bancarottiere e una moglie tradita
SONO i personaggi attorno ai quali ruota l’opera. Miserabili individui ai margini della Cina meno conosciuta, quella del nord est dell’Heilongijang dove fa un freddo cane, nevica e l’industrializzazione forzata, un po’ come accade nei film di Jia Zhang-ke, ha creato ricchezza e in contemporanea sacche di individui che hanno perduto la propria stella cometa. A differenza dei film di Jia, qui non si tratta di persone strappate ai loro luoghi fisici. È gente che è rimasta ma vede l’altro mondo, quello delle nuove città in costruzione, sempre da lontano. Esclusa da esse. Non si sa se per scelta o per destino. Dice l’escavatorista Xu nella scena iniziale all’amante infermiera :” Non sono giovane e sono al verde. Ciò che mi rimane è il mio matrimonio” e non importa che quella sostenga che ” lo struggimento è una perdita di tempo”. In realtà in Manchurian Tiger il tempo, almeno nella prima parte, sembra disperdersi in decine e decine di istanti. Tutto è un durante slegato da qualsiasi scansione logica. Un puzzle che Jun Geng impiegherà parecchio a comporre, offrendo chiarezza di trama e una coralità di voci soltanto nella seconda parte. Un caos voluto per penetrare in queste vite che si incrociano e si scontrano a causa della mancanza di denaro di alcuni e dei debiti di altri.
Tra l’estetica di Jia Zhang-ke e i fragili reietti di Kaurismaki
IN EFFETTI qualcosa di Jian Zhang-ke nel film di Jun Geng c’è: è l’estetica che agisce per contrasti. Paesaggi dimessi, strade fangose, motociclette che le solcano a fatica come nell’incipit del primo episodio de Il Tocco del Peccato https://guidoschittone.com/non-entusiasmano-i-peccati-di-zhang-ke/ o nel più recente I Figli del Fiume Giallo https://guidoschittone.com/il-tempo-sognato-che-bisognava-sognare-di-jia-zhang-ke/, le città appunto che si stagliano in vicinanza ma con l’idea di essere sempre distanti dal diventare parte di un luogo fisico coerente con il paesaggio e quindi con la stessa umanità. Mancano i piani sequenza del sommo, in compenso ci sono intuizioni pittoriche, dall’incipit, un paio di cachi tenuti in un secchio ghiacciato che paiono una natura morta di Luciano Ventrone, fino ai personaggi ripresi come fossero soggetti di un quadro, artifizio scenico con cui Jun Geng chiude molte scene madri. Ma il contenuto di questa allegra quanto disperata banda di vite al margine è vicinissimo ad Aki Kaurismaki.
Amorali e colpevoli, uniti nel perdono
IN MANCHURIAN TIGER i protagonisti ne combinano di cotte e di crude: dilapidano i risparmi di famiglie intere, lontani cugini compresi, tradiscono le mogli, vogliono vendicarsi ma perdonano e si uniscono. Stanno sempre sull’orlo del precipizio, si salvano assieme per iniziare a sperare. C’è uno strano tipo, una sorta di fool shakespeariano, che offre una scala ai passanti perché quello è il mezzo per vedere oltre, per proseguire. Il senso del film è in quella breve scena e in un’altra in cui si vede appunto la tigre della Manciuria allo zoo, dove un nonno spiega al nipotino che ” nella giungla la tigre è con i suoi amici. Tutte ruggiscono. È così che si parlano. Qui è da sola, non ha nessuno con cui parlare. Sembra un criminale in prigione. Per la sua protezione e cura e affinché la gente possa ammirarla vive qui nella sua gabbia”. Nel discorso si inserisce il poeta matto che afferma :”L’orso in questo zoo ha 32 anni. Ha otto anni meno di me. La tigre ha 19 anni. Non siamo più giovani”. E col binocolo osserva le feci dell’animale. Sono discorsi solo in apparenza sconclusionati: la verità è che tutto il film si regge sul sottotesto di queste battute. Jun Geng pretende dallo spettatore l’interpretazione e non lo fa mai per narcisismo.
Il grido di speranza di un film magnifico
HO AMATO Manchurian Tiger perché mi trovo a mio agio in questo tipo di assurdo coerente, ben più per esempio di quello del regista svedese Roy Anderson che trovo alquanto noioso nel suo tentativo di apparire geniale. Jun Geng invece si fa interprete di una Cina che ancora non ha risolto le proprie contraddizioni sociali. I suoi eroi sono quasi beckettiani, sempre sull’orlo di un Finale di Partita o di un Fallimento ma vivi, vibranti. Capaci di resistere, di andare oltre la disperazione. In grado di punirsi, sbagliare e di aiutarsi. Capaci soprattutto di vivere. Nell’inventarsi un motivo. Per proseguire ridendo di sé stessi.