One for the Road: Wong Kar-wai c’è ma solo nell’estetica. Il resto è un mélo commerciale

In bilico tra Broken Flowers e C’era una volta in America

FILM CURIOSO questo One for the Road del thailandese Nattawut Poonpiriya, giunto al Feff24 sull’onda del successo riscosso al Sundance. In primis perché a produrlo è niente meno che Wong Kar-wai, sempre molto attento a ciò che realizzano i giovani autori del far east asiatico. Diventa quindi scontato dire che già in partenza l’opera si porta addosso un marchio di qualità oserei dire assoluta. Purtroppo, seconda punto, all’oggettiva bellezza e perfezione estetica del film non corrispondono script e sceneggiatura adeguati. C’è troppa confusione nei modelli di riferimento e ci sono troppi rimandi a cose già viste e assimilate. Fate conto che per tutta la prima parte One for the Road pare una versione riveduta e corretta di Broken Flowers di Jim Jarmusch, quel film abbastanza noiosetto-ma a molti è parso un capolavoro- in cui Bill Murray girava per gli Stati Uniti bussando alle porte di tutte le sue ex amanti per capire quale fosse la madre di un figlio del quale non conosceva l’esistenza. Di differente qui c’è un ragazzo malato terminale che gironzola per la Thailandia per riparare alle malefatte combinate nel proprio passato sentimentale e cercare in questo modo di cancellarlo del tutto prima di votare l’anima a dio. Il tutto obbligando il suo migliore amico, che fa il barista a New York, a ritornare a casa ed ad accompagnarlo in questo improbabile viaggio. Ma non è finita qui perché dopo oltre un’ora si entrerà in modalità C’era una volta in America, non tanto come luogo geografico quanto per assonanze di vicenda amicale.

Troppa carne al fuoco non fa bene allo svolgimento

L’IMPRESSIONE è che Poonpiriya sia stato colto da improvvisa ansia da prestazione. In One for the Road, che tra parentesi è il nome di un cocktail, c’è infatti troppa carne al fuoco: il rapporto di odio sociale e invidia che poi si tramuta in pentimento e amicizia, redenzione e perdono, le tradizionali storie di amore perduto proprie queste di Wong Kar-wai ma che restano in totale superficie e non vengono utilizzate come metafore esistenziali sul significato del tempo, della memoria e di quel disperato senso che è siamo ciò che siamo stati. Il tutto va a sprazzi ed ogni volta che il film cerca di approfondire ecco che giunge come una mannaia l’occhiolino alla storia sdolcinata, buona per il box office meno per chi si attendeva qualcosa in più. Ma esiste il rovescio positivo della medaglia……

La bellezza formale come rovescio della medaglia

NEL FILM c’è anche del buono:la qualità formale, per esempio. In questo l’allievo riesce a imitare alla perfezione il maestro, ovvero Wong Kar-wai. La ricerca del particolare è assoluta e la cura delle scene, divise tra Thailandia e una New York che a volte sembra ostile ed altre accogliente, dimostrano che Poonpiriya sa il fatto suo e segue in modo rigido le indicazioni del suo mentore e punto di riferimento artistico. Basterebbe osservare la preparazione dei cocktail-nel film ce ne sono tanti per la gioia dei baristi-e i relativi movimenti della camera per starsene ore e ore a rivedere quelle scene. Persino la vettura utilizzata nel viaggio è una chicca sorprendente, una splendida quanto preziosa BMW CS anni’70. Trattasi, però, di ciliegine poggiate su una torta che non mantiene quanto promesso. Soddisfa la vista, meno il palato.

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