Non entusiasmano i peccati di Zhang-ke

Il tocco del peccato

IL TOCCO DEL PECCATO ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes di quest’anno. E di conseguenza è giunto in sala con i consueti peana entusiastici sulla scia dell’impegno e delle capacità del proprio regista, il cinese Jia Zhang-ke noto per aver firmato tra gli altri lo splendido << Still Life >> vincitore a Venezia nel 2006 oltre a una serie di film e documentari mai distribuiti nelle sale in Italia ma patrimonio degli appassionati puri e crudi. E’autore originale con la propensione nel fotografare lo sconvolgimento provocato dai mutamenti politici e sociali della Cina negli ultimi decenni. Un regista << impegnato >>, parecchio rigoroso, straordinario nell’uso della macchina da presa e soprattutto nella capacità di dare un significato alle sue celebri carrellate- da storia del cinema quella del traghetto di << Still Life >>, ma anche ne << Il tocco del peccato >> ve ne sono un paio da applausi a scena aperta- , molto meno però nell’offrire un cambio di passo alla propria produzione. E’questo il limite del suo nuovo film: stilisticamente perfetto ma algido e soprattutto non originale. Bello ma noioso, interessante ma già visto, con altro pathos e con altri risultati, negli svariati coevi che Zhang-ke ha in Estremo Oriente. Dal suo maestro Takeeshi Kitano a Kim Ki-duk per arrivare a Chan-wook Park. Perché il problema vero di << Il tocco del peccato >> è che non c’è nulla di nuovo. E non è un problema da poco.

NON NUOVO è il discorso sulla relazione tra individuo e Cina che cambia. Il regista lo aveva già ampiamente illustrato in << Still Life >>. Non nuova è la scelta di affidarsi a quattro storie differenti con i personaggi legati da uno schema circolare. Non nuove sono le modalità attraverso le quali la sceneggiatura racconta la trama e i modi che il regista utilizza per descrivere il cammino di vita e morte dei suoi protagonisti. Un peccato perché l’inizio è promettente. C’è un camion di pomodori rovesciato e un uomo in sella a una moto che fa rimbalzare un ortaggio sulle proprie mani. Poco dopo vediamo un altro uomo, un motociclista, che mentre sta affrontando tornanti viene bloccato da una banda di teppistelli che gli chiedono denaro. Lui li ammazza e riprende il proprio viaggio. Si ritorna a completare la scena iniziale: accanto al camion rovesciato c’è un cadavere ricoperto, pomodori ovunque, e l’altro uomo in moto fermo che osserva la scena fino al momento in cui si avverte una fortissima esplosione. Lo ritroviamo vagare sotto la neve, rifocillarsi dove capita, giungere in una città dove la statua di Mao è al centro di un crocevia, tra una strada statale e il centro della città stessa mentre un gruppo di lavoratori in motocarro trasporta un quadro raffigurante la madonna e un bambino. E’il primo episodio, forse quello meglio riuscito a livello di freschezza e di dinamismo. Ahinoi nemmeno nuovo, perché è la storia di un minatore che non accetta la corruzione che ha portato i padroni a una condizione di ricchezza e di totale sopruso dei dipendenti. E dato che è il classico rompino aziendale viene aggredito e malmenato. Tutto ciò porterà a una vendetta dal profumo di polvere da sparo, un poco pulp, molto Kitano– dei primi tempi- dove già si avverte che il discorso di Zhang-ke è sempre il solito: l’individuo capace di leggere i cambiamenti della società cinese, che si ribella a essa vendicandosi e soprattutto sembra possedere una certa nostalgia del passato, in cui pare- per il regista- che tutto fosse pulito e puro. Ho citato Kitano per due motivi. Il primo, biografico, riguarda proprio il regista cinese: con il geniaccio giapponese Zhang-ke ha collaborato nella prima fase della propria carriera. Kitano è colui che lo ha finanziato e che gli ha consentito di evolversi a livello internazionale. Non per nulla Kitano stesso è uno dei produttori di << Il tocco del peccato >>. Il secondo: l’azione della prima storia sembra essere figlia dei tanti film che Kitano si è divertito a girare coi suoi poliziotti corrotti ma dal cuore d’oro, vedasi per esempio << Violent Cop >>. Un eccesso di sangue e polvere da sparo capace anche di far sorridere ma con ben altra forza e potenza. Qui il suo << emulo >> cinese sembra perdersi in una conclusione tutto sommato molto didascalica e facile e chi andrà al cinema comprenderà i motivi. La seconda storia, invece, vede protagonista l’altro uomo in motocicletta del prologo. E’uno sbandato del quale sappiamo nulla, se non che sta tornando a casa per il compleanno dell’anziana madre che viene festeggiato poco prima del capodanno cinese. Ha una moglie, un figlioletto- splendida la scena notturna degli spari e dei fuochi d’artificio in compagnia del suo piccolo- e si confronta con una doppia realtà:la dolcezza familiare e la violenza e il cambio delle abitudini,la paura dell’aids, gli sfruttamenti che vengono effettuati dai ricchi taiwaniani nei confronti delle giovani fidanzate dei ragazzi del posto.La normalità della sua esistenza sembra solo essere quella della morte altrui. A me ha ricordato certi ritratti di Kim ki-duk, il ragazzo di << Bad Guy >> per esempio ma senza la poesia e il pathos sentimentale che si celava dietro quell’antieroe sudocoreano. Poi c’è la terza storia, nella quale una donna, la protagonista sia di << Still Life >> sia del film di Segre << Io sono Li >> nonché compagna del regista stesso Zhao-tao è la giovane amante di un direttore di stabilimento che lavora come receptionist in un locale per saune, massaggi e affini e che si vendica della violenza psicologica subita ad opera di due clienti. E’forse la storia più forte, quella in grado di emozionare e non per niente sarà questa la protagonista anche del finale del film, subito dopo l’ultimo episodio dove un giovane operaio scappa dalla fabbrica dove ha indirettamente procurato un danno a un suo collega e nella speranza di fare soldi facili va a lavorare in un bordello per ricchi dove conoscerà l’impossibilità dell’amore. Farà una scelta al contrario, decidendo di rientrare nei ranghi ma senza alcuna speranza né di guadagno né di sentimenti fino al suicidio.

Insomma ne << Il tocco del peccato >> vengono sfiorati tutti gli stereotipi del cinema asiatico e tutte le problematiche che caratterizzano la cinematografia di Zhang-ke. Il problema sta nel ritmo, che è assente, nel cambio di svolgimento del discorso nonostante vengano prese in considerazione storie che avvengono in quattro zone differenti della Cina moderna: nello Shanxi,Chonggqing, Guandong e Hubei, tutte tratte da reali episodi di cronaca. Corruzione, avidità, violenza, senso di sradicamento, denaro che ritma il quotidiano e le aspirazioni di ognuno. Il purificatore Zhang-ke ci tratteggia i vizi e i vezzi della Cina senza centrare troppo l’obiettivo e lasciandoci sufficientemente annoiati, al di là di alcune scene madri- nemmeno queste nuove, come quella dei serpenti o della parata delle prostitute nel bordello vestite come guardiane della rivoluzione cinese- e della indubbia, raffinata spesso geniale capacità di messa in scena. Ma resta l’idea di un film sopravvalutato che visto dopo un capolavoro, mi riferisco a << Il Passato >> di Farhadi, non regge in nulla il paragone. D’accordo Zhang-ke ci ha fatto tornare sulla terra ma non ha aggiunto nulla a ciò che si sapeva e che l’autore aveva già scritto e girato.

Voto: 6/10

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