Le splendide false verità di Asghar Farhadi

Basta questo film per essere in pace con il cinema

FATE CHE IL DESTINO vi obblighi a vedere un solo film nell’arco dell’anno. Fate che siate curiosi, amanti di ogni genere e di ogni cinematografia e abbiate la mente aperta, non occlusa e siate ricettivi. Io non avrei alcun dubbio nel consigliarvi di correre, di arrivare anche con il fiatone in sala, di sacrificare le vostre ore per << vivere >> << Il Passato >>, l’opera di Asghar Farhadi che avrebbe dovuto vincere Cannes 2013 e alla quale come contentino la giuria ha attribuito solamente il premio per la migliore interpretazione femminile ad opera di quella delizia che è Bérénice Beyo. In un festival di altissimo livello – pochi i film brutti – quello dell’iraniano già autore de << Una separazione >>– Oscar come miglior film straniero – brillava di luce ancora più forte, vivida, quasi accecante. Lo conferma in sala, lo ribadisce scena dopo scena, battuta dopo battuta. Difficile fare meglio, difficile per lo spettatore trovare difetti, imperfezioni, in una macchina complessa che all’apparenza sembra semplicissima ma che non lascia spazio all’indifferenza della coscienza o alla noia o al non so, non mi interessa.

Il Passato come evoluzione di Una Separazione

<< IL PASSATO >> è l’evoluzione del film precedente http://guido.sgwebitaly.it/?p=365 non solo nello spunto della trama. E’ approfondimento definitivo, assoluto, di un discorso sull’individuo al cospetto del proprio interpersonale e della percezione degli altri attraverso noi stessi. Qui, a differenza di << Una separazione >>, la coppia è già divisa. Lei si è rifatta una vita, lui viene da Teheran per firmare le carte del divorzio. Ma non sarà così, lo si capisce fin dalla scena che precede il titolo di testa. Un vetro divisorio separa chi attende e chi arriva nella hall dell’aeroporto. Sono sguardi, corse, ricerche di due vite a sé stanti che comunque danno l’impressione di non aver rotto, spezzato il proprio prima. Lo comprendiamo appena salgono in auto, quando i bagagli a fatica sono stati stipati, la pioggia parigina rimbalza sulla carrozzeria e una retromarcia brusca mostra due sguardi in apnea, una domanda << costa stai facendo? >> e nessuna risposta se non una brusca dissolvenza dell’immagine che vira su un tergilunotto che tenta di cancellare la parola Il Passato. E’l’inizio di tutto, di una storia che da quel momento non lascia spazio alla distrazione di chi osserva. Perché Farhadi va oltre l’opera precedente. Vira sul capolavoro, sulla perfezione.

Un gruppo di famiglia in stato confusionale

Crea un gioco portandoci a casa della protagonista. Come l’ex marito incontriamo una figlia, il bimbo di un misterioso nuovo compagno e sappiamo che c’è anche una figlia maggiore che crea problemi. Se nell’incipit Farhadi ci offriva l’immagine di una ex coppia che potrebbe incontrarsi in modo sereno, come vecchi naviganti esistenziali, già nelle scene successive ci mostra che non è così e non lo potrà mai essere. La casa di lei è una villetta fatiscente della periferia parigina, dove tutto è disordine, dove ogni azione e ogni sguardo dei bimbi segnala una condizione di dubbio, di paura, di sospetto. Soprattutto di apnea esistenziale, di mancanza di certezze. C’è la ribellione di qualcuno, il lento osservare di altri, confusione estetica e la progressiva coscienza da parte della figura di Ahmad che il suo soggiorno francese non riguarderà solo l’apporre una firma per il divorzio. Manca in quel contesto la figura di riferimento. Non lo è Marie che attende un figlio dal suo nuovo amante, Samir, ma che ha un rapporto burrascoso con la figlia maggiore Lucie. Non lo può essere nemmeno Samir, la cui moglie è in coma da otto mesi. E i bimbi, coscienze del caos in cui si trovano i << grandi >>, avvertono, sentono, sbandano. Ahmad quindi si fa carico del tentativo di individuare cosa non funziona, cosa sta accadendo a quella famiglia allargata. Nemmeno lui è immune da questo stato confusionale che grava sui sentimenti e sulla vita del gruppo che Farhadi ci mostra.

Un gioco di scatole cinesi

IL REGISTA ha abituato lo spettatore a indagare i personaggi. Crea anche qui un film a scatole cinesi. Ci propone verità, che all’inizio sembrano assolute, poi relative e che si trasformano a poco a poco in punti di vista, in menzogne, in assenza di realtà oggettiva. Ogni personaggio crea una propria storia attorno all’evento che Farhadi racconta.Ricerca nella propria interiorità le giustificazioni a un atteggiamento, a una decisione. Farhadi partorisce una teoria, una verità apparentemente assoluta e poi la smonta. Perché nessuno riesce a vivere il proprio presente, perché tutti hanno le spalle ingobbite da un passato irrisolto, non accettato, che grava come un temporale sul quotidiano. Sono le valigie che ogni tanto fanno capolino, sono le porte o le pareti scrostate che qualcuno cerca di riverniciare, è il senso di inadeguatezza che tutti si portano appresso. Il passato è la fine della storia tra Marie e Ahmad avvenuta quattro anni prima. Ma il presente ci dice che Marie si affida all’ex marito per cercare di capire cosa succede.Il passato è il suicidio della moglie di Samir eppure il suo rapporto con Marie sembra essere condizionato dal non detto e dall’attesa di qualcosa. Così a diventare centrali sembrano a un certo punto le figure più fragili, quelle dei tre ragazzi e soprattutto dell’adolescente Lucie, la ragazza che non accetta di vedere la madre sposarsi ancora una volta con un uomo con il quale poi irrimediabilmente la storia finirà. E’un gioco molto raffinato, molto profondo quello in cui ci porta l’autore iraniano.

Finzione come stato di necessità individuale

COME in << Una Separazione >> non esistono eroi e nemmeno carnefici. Finzione come stato di necessità forse per sopravvivere e per giustificare noi stessi ai nostri occhi. Da questo si originano il caos e il dramma del vivere i rapporti interpersonali. Le storie di Farhadi sono quelle degli uomini, delle loro fragilità, all’inseguimento dei meandri psicologici nei quali ci dibattiamo. Continuo a ritenere che ci sia anche metafora politica dietro le sue opere, come se sfruttasse le nostre contraddizioni per spiegarci quelle di un regime, l’iraniano, di difficile comprensione agli occhi degli occidentali. Così, con un’acquisita sensibilità europea, il regista ci dona un’opera fondamentale, struggente, importante che si conclude senza un finale preciso. Lentamente ogni verità ci viene smontata, ma la ricostruzione di ciò che è avvenuto sarà un tentativo – splendido e che non sveliamo- che non è detto porterà alla chiarezza. Di sicuro << Il Passato >> ci dona sicurezze di autore e di interpreti. Bérénice Beyo è Marie, una donna in preda al proprio irrisolto capace nel finale di prendere una decisione che sa di vita autentica. Tahar Ramin, << Il Profeta >> di Audiard, è Samir, timido, dolce, complesso, indeciso, uomo dai lunghi silenzi. Ali Mosaffa, Ahmad, è lo spettatore che entra in scena, il marito di ritorno, colui che ci conduce e che cerca di spiegarci. Un cantastorie travestito anch’egli sopraffatto dal ciò che è stato e del quale sapremo fino alla conclusione ben poco. Strepitosi i tre ragazzi: Pauline Burietè la tormentata Lucie.Ha solo 17 anni e penso che per capacità, intensità, oltre che bellezza, possa in poco tempo diventare un’attrice importante. Tra i due << piccoli >> restano impressi gli sguardi sognanti di Jeanne Jestin e la nervosa, profonda osservazione dello stato delle cose di Elyes Aguis.E’lui che ci offre sempre la presa di coscienza, è lui che è il primo a dirci del malessere in un film meraviglioso, dove la sceneggiatura è impeccabile, la direzione degli attori pure. E il contenuto molto raro. Inchiniamoci a Farhadi. Questo è cinema che non andrà disperso.

Voto:10/10

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