In Danimarca, dove il cinema è cupo

Wildland, un noir che non sfugge alle regole della tradizione

La Danimarca è una terra felice? Ad osservare la sua cinematografia la risposta sembrerebbe negativa. Wildland che nel 2021 è stato premiato con il Black Panther Award al Noir in Festival non sfugge alla regola. Cupezza, crudeltà, assenza totale di etica, stati di solitudine, violenza sono gli ingredienti che tutti gli autori danesi inseriscono nelle loro opere, siano alte o basse. Dal genio di Lars von Trier a quello di Nicolas Winding Refn, dalla stessa Susanne Bier al promettente duo Hviid-Ølhom, quelli dello straordinario Shorta per intenderci-https://guidoschittone.com/shorta-benvenuti-nella-zona-dombra/– da Vinterberg a Jensen è tutto un fiorire di disamine ben poco lusinghiere sullo stato della piccola nazione scandinava. La regista Jeanette Nordahl con Wildland segue un percorso molto simile a quello dei suoi più illustri colleghi. Il risultato, sebbene non perfetto, è un solido film che giustifica la domanda iniziale. D’altronde << C’è del marcio in Danimarca>> non l’abbiamo inventato noi.

Tra matriarcato e stati di emarginazione

Prendete una diciassettenne che sopravvive alla morte della madre-tossica-in un incidente stradale e di quel trauma inizialmente se ne fa una colpa anche se non ha alcuna responsabilità. Metteteci un assistente sociale o un tutor che le impedisce di andare a vivere da sola o in qualche struttura e la obbliga ad abitare con la zia e i relativi figli di questa con il corollario della moglie e della neonata del maggiore e della poco amata fidanzata di quello che sembra il meno a posto di tutti. Poi aggiungete la poco sorprendente rivelazione che il clan è avviatissimo nello strozzinaggio: si prestano i soldi e si pesta chi non paga. Il tutto sotto l’ala protettrice e sofffocante della zia, la cui scheda psicologica rivela un amore ai limiti del morboso nei confronti della figliolanza ed è il deus ex machina di ogni decisione e di ogni azione intrapresa. Quando ci scapperà il morto il giochino dovrà andare avanti, costi quel che costi. Soprattutto per la nipotina così generosamente accolta.

Il terzo occhio della protagonista alla base del film

Nordahl basa tutta la trama di Wildland sullo sguardo magnetico della diciassettenne Sandra Guldberg Kampp, Ida la nipote. La ragazza accenna parole, secche, dirette, soprattutto è seguita nel suo silenzio dalla camera della regista. Osserva, percepisce e intuisce, ritrae con pragmatismo radicale ogni sfumatura della strana famiglia in cui è capitata. È una giovane traumatizzata dal lutto che fin dall’inizio accetta supinamente le situazioni esterne. Non si può considerare vittima. Piuttosto il suo è un cammino psicologico già segnato a priori, fatto di un’espiazione in nome di una ragione di stato-famiglia. La sua è impotenza voluta. Anche sottrarsi a essa, come timidamente Ida cerca in un momento chiave del film, diventa inutile. In questo c’è molto del luteranesimo e delle concezioni degli avvenimenti esistenziali e della salvezza dell’individuo, fattore proprio di quasi tutti gli autori danesi.

Un’opera declinata al femminile

Wildland è un film dove la figura femminile determina gli eventi. Il personaggio della zia, bravissima Sidse Babett Knudsen, è l’alter ego della nipote. Al di là degli aspetti più evidenti, tutta l’opera è giocata tra il fattore aggregante del nucleo, la zia, e quello potenzialmente disgregante, Ida, con un terzo personaggio, la fidanzata del figlio più problematico tra i…problematici, che lascerà in sospeso un finale aperto a più interpretazioni. Meno approfonditi invece sono tutti gli altri, figure molto schematiche e che nonostante la buona interpretazione d’assieme costituiscono l’anello debole di Wildland. Resta però la sensazione che anche questo film non sia altro che un’allegoria di una nazione descritta all’ avanguardia sul fronte sociale ma che in realtà si chiude a riccio per celare le proprie contraddizioni e il senso di isolamento da tutto il resto di cui Ida è vittima consapevole. Così gli ambienti sono freddi, il senso di claustrofobia racchiude ogni scena, anche quelle in esterno, e ciò che la premiata società scandinava offre si tramuta in un’algida applicazione di un manuale. Per questo sorge il dubbio: se la zia avesse ragione? E se la famiglia fosse l’unica risposta? È il punto interrogativo che Jeanette Nordahl ci regala.

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