The Whale, Aronofsky mette in scena la straziante e dolce mostruosità dell’esistenza

Un dramma da camera che centra il bersaglio

L’APPARTAMENTO di Charlie è come una cella di clausura. Un luogo di difesa, in cui solo un’infermiera può entrare. Charlie è abnorme, pesa quasi 300kg. La sua casa in realtà è normalissima ma il regista Darren Aronofsky e il fido direttore della fotografia Matthew Libatique la fanno sembrare una prigione soffocante, dove tutto è dominato dal corpo del gigante. Per questa ragione è stato scelto il formato 4:3. È assoluto il contrasto tra la fisicità dell’uomo e lo spazio che la contiene. La grandezza dell’uno fa piccolo il secondo. Sembra un mondo chiuso, buio, celato che è poi ciò che Charlie desidera: non mostrarsi, restare dall’altra parte della luce. Perchè l’ha perduta molto tempo prima assieme al suo grande amore. E da quel giorno la bulimia e la relativa vergogna dell’apparire hanno preso il sopravvento. The Whale non è però solo questo. È molto di più; un dramma da camera, tratto dall’opera teatrale dello sceneggiatore Samuel D.Hunter, che centra il bersaglio e che è destinato a diventare uno dei film di maggior successo di questa stagione.

Un raffinato gioco di contrasti

Sono i contrasti a fare di The Whale un’opera interessante. Perché la claustrofobia, il senso di mondo chiuso rappresentato fin da subito da una masturbazione, si stemperano a poco a poco. Aronofsky confronta l’enormità corporale del suo protagonista con ciò che invece pulsa al suo interno. Ed è là dentro che c’è un mondo fatto di ricordi e rimorsi, sbagli, insanabili lutti. Ma non esistono recriminazioni. Charlie rifiuta il proprio corpo, lo distrugge a poco a poco. Ha accettato le proprie scelte. Fino all’estremo. La vergogna del mostrarsi è solo la fragile pellicola protettiva di un uomo in subbuglio interiore. Nell’anima di Charlie esistono comprensione degli altri e amore per il prossimo. È l’insostenibile leggerezza di un individuo che cerca di ricucire la relazione con la figlia abbandonata quando era ancora bambina.

La rilettura delle tematiche di The Wrestler

The Whale così si trasforma in una sorta di rilettura delle stesse tematiche di The Wrestler, trasportate in un appartamento. Sono i temi a cui Darren Aronofsky è affezionato: la deturpazione del corpo, espressione definitiva di un accadimento passato, l’autoflagellazione consapevole. Mi punisco per i miei peccati. La differenza è che in The Whale la condanna che si è inflitto il protagonista è non soltanto il mezzo per confessare i propri sbagli. Da essa passa l’apertura verso il mondo: la figlia, le poche persone che lo circondano. Charlie ha il rifiuto di sé stesso ma non degli altri. Il film si poggia integralmente su questa apparente contraddizione, fatta di chiusura-apertura, celarsi-far esplodere il proprio intimo. Per essere liberi.

Il vero comunicare è nella scrittura

Un particolare interessante di The Whale è il rapporto con la scrittura. Ogni qual volta Charlie è sull’orlo della fine ama leggere o ascoltare riflessioni su un capitolo di Moby Dick. La tristezza che accompagna Melville e la sua balena lo identificano. In un film fatto soprattutto di parole-e non poteva essere altrimenti vista la discendenza teatrale-i veri rapporti saranno svelati più dalle frasi scritte da figlia e padre che dai continui e rispettivi modi di elaborare il lutto: arrogante fino alla violenza verbale per dolore da parte della prima, dolce, comprensivo quello di Charlie. Sembra quasi che ci sia un parallelismo tra ciò che è forma esteriore, e lo sono anche le parole dette, e ciò che è interiore, come la parola scritta. La stessa contraddizione su cui si basa The Whale.

Forse eccessivo il tono melodrammatico

The Whale non è film perfetto: Aronofsky tiene alta la tensione per tutta la sua durata ma eccede nella deriva melodrammatica del finale: efficace per far presa sul pubblico in sala-anche chi scrive ha versato tutte le sue lacrime-ma fin troppo evidente e prevedibile. È un limite che investe anche il quarto personaggio in scena, il giovane missionario, unico reale estraneo all’esistenza di Charlie assieme al fattorino che consegna la pizza. La sua figura consente a Aronofsky e allo sceneggiatore Hunter di imbastire una confusa riflessione metaforica su visione religiosa e laicità, su dio e sulla sua assenza, sulla crudeltà della Bibbia. È un appesantimento che trova il proprio sbocco solo verso la conclusione.

Brendan Fraser da Oscar in un film dal grande impatto

Per recitare in The Whale, Brendan Fraser ha dovuto sopportare il peso di una tuta proseica di 165kg. È lui l’eroe del film, l’uomo imprigionato in un corpo impossibilitato a muoversi. L’attore statunitense interiorizza il personaggio di Charlie e lo fa in modo magistrale, anche perché lui stesso ha vissuto un lungo periodo buio. Esalta la dolcezza e la disperazione, il pudore nel non volersi mostrare al mondo e ai suoi studenti on line. Sprigiona l’umanità in mezzo al caos fisico in cui vive, dove solo una stanza dell’appartamento è linda e in ordine, autentico simulacro dei giorni felici e,per beffa, luogo impenetrabile per chiunque anche per lui stesso. Fraser non è mai eccessivo, capace come è di inserire il lato ironico laddove il melodramma cerca di prendere il sopravvento sul contenuto. I suoi tre compagni di viaggio sono l’efficace Hong Chau, l’ottimo Ty Simpkins e Sadie Sink, che impersona una figlia forse fin troppo adrenalitica e caricata come personaggio. Ma era quello che voleva Aronofsky, un regista divisivo, che a Venezia non ha convinto i critici ma lo sta facendo con gli spettatori. Perché The Whale, limiti o no, sa emozionare, cosa rara da trovare in sala negli ultimi tempi.

Aronofsky e McDonagh:due modi all’opposto di fare cinema

L’Ultima annotazione riguarda il fatto che due tra i film presentati a Venezia siano tratti da opere teatrali: uno, Gli Spiriti dell’Isola, di Martin McDonaghGli Spiriti dell’Isola: la radice teatrale a volte smorza il ritmo del film di Martin McDonagh. Ma gli interpreti sono al top– va di sottrazione e spoliazione della parola. Aronofsky e Hunter, invece, procedono all’opposto: qui tutto è caricato, anche se mai si raggiunge la verbosità. Sono visioni differenti che possono dividere: Gli Spiriti dell’Isola è piaciuto molto alla critica ed è spesso risultato incomprensibile al pubblico. The Whale, come spesso accade con il suo regista, sta sortendo l’effetto opposto: parte dei recensori freddini, pubblico entusiasta. È la bellezza dell’arte chiamata cinema.

Condividi!