Bella e Perduta–http://guido.sgwebitaly.it/articoli/bella-e-perduta-viaggio-non-banale-alla-ricerca-della-salvezza/-era stato il biglietto da visita di Pietro Marcello presso il grande pubblico. Quel film così personale, differente, incedeva con modalità poco frequentate dalla maggioranza degli autori italiani della nostra epoca. La favola-quindi il racconto morale-penetrava la realtà; la distorceva per esaltarla, si affrancava dagli stereotipi tipici di molti film << campani >> preferendo utilizzare la rivisitazione delle figure tradizionali, offrendo allo spettatore alcune scene che credo siano rimaste nella memoria: la prima che mai mi ha abbandonato è quella dell’Arlecchino fatto prigioniero dai Pulcinella. Nell’autore, noto per essere un ottimo documentarista, c’era già ciò che a molti manca: la fortissima personalità, il coraggio di non tradirla, la coerenza delle scelte. Eravamo in presenza di una specificità spiccata che un’opera complessa, difficile-da ideare, scrivere, mettere in scena- come questo suo Martin Eden avrebbe potuto scalfire. Invece l’ha esaltata, perché il segreto di Marcello è quello di mettere al servizio del cinema il proprio talento rinunciando agli autocompiacimenti, cercando di optare sempre e comunque per un percorso narrativo-scrittura e immagine in perfetta armonia- in grado di prendersi tutti i rischi possibili e immaginabili. Per intenderci solo un lucido folle può architettare un’opera come quella a cui, giustamente, pubblico e critica della Mostra di Venezia, hanno tributato applausi a scena aperta. Merito del regista e del << solito >> Maurizio Braucci che anche in questo caso costruisce una sceneggiatura magistrale, condivisa con lo stesso Pietro Marcello, il cui limite è sgonfiarsi un poco nell’ultima parte. Il romanzo di Jack London è il mezzo identificato dal binomio per una riflessione tutta italiana sul ‘900, sul rapporto tra individuo e storia, evoluzione stessa del discorso di Bella e Perduta, dove animali e maschere erano in balìa delle contraddizioni dell’uomo e allo stesso tempo osservatori implacabili di questo.
Martin Eden è napoletano, naviga per il mondo e il tempo in cui Marcello lo inserisce cambia a scansione libera. Il marinaio che volle farsi scrittore sembra trasformarsi nel testimone e nella memoria degli accadimenti italiani del ‘900. Tutto attorno a lui si interseca, si divide, si spezza, avanza e ritorna offrendo spunto allo spettatore per indovinare i riferimenti, i personaggi, i fatti. Geniale è il non rispetto di alcuna cronologia: l’autore riesce nel non confondere mai chi osserva sfruttando una dote che già nelle sue opere precedenti, Bella e Perduta in primis, aveva mostrato. Marcello utilizza spezzoni della memoria, inserisce repertorio d’epoche differenti o lo ricostruisce egli stesso-ci sono scene che sembrano prese di pari passo da materiale scartato dal già citato film di quattro anni fa- cambiando formato, colore, mezzo tecnico. Tutto in Martin Eden è in movimento. Si viaggia in treno tra un’epoca e un’altra, tra un’emigrazione verso il nord, le lotte contadine, gli anarchici socialisti come Enrico Malatesta, l’alfabetizzazione di massa, la guerra che incombe e poi finisce, le canzoni, il twist, il boogie-woogie, Bach e Debussy. Tutto ciò mentre il percorso di Martin Eden protagonista del romanzo prosegue. Come se ci fosse uno sdoppiamento del personaggio: un Eden che è memoria egli stesso-quindi storia e metafora- e un altro sulle cui spalle poggiano gli eventi della narrazione. Uno specchio. Per enfatizzare questo tempo << circolare >>, avvolgente, Marcello pone sempre in primo piano inquadrature di volti, fermi immagine di persone, siano essi bimbi, vecchi, operai, popolani. Sguardi vittime dell’inganno, vittime della storia e delle illusioni di un secolo che ha creato sconfitti. La cura posta è maniacale: quadri all’interno di uno stesso dipinto, quello in cui il protagonista e l’occhio che guarda è Martin Eden, l’uomo che cerca di affrancarsi dall’umile condizione sociale abbracciando la cultura, la cui scoperta avviene attraverso l’infatuazione per l’aristocratica Elena Orsini. Un amore medium, necessario, socialmente impossibile. È chiaro l’omaggio a Pasolini, ma avverto assonanze formali-già avvertite nelle opere precedenti- con Giuseppe Gaudino e addirittura con Jia Zhang-ke.
La guerra di Eden contro il mondo borghese avviene attraverso la vanagloriosa convinzione di poterlo frequentare e viverlo mediante il proprio talento. La scrittura è l’indicatore del suo processo evolutivo ma anche la portatrice della disillusione legata al sapere di non sapere che è allo stesso tempo pregio e limite, spinta realizzativa e frustrazione. Riuscirà Eden a diventare ciò a cui ambiva ma il prezzo da pagare sarà l’abiura dell’agognato, la consapevolezza di uno stato individuale di solitudine e carenze, la convinzione di non appartenere a nessun tempo e nessun nucleo. In questo la figura di Eden ha una precisa correlazione con il Pulcinella di Bella e Perduta: entrambi infatti vogliono trasformarsi in ciò che non sono. La << maschera >> entrare tra gli umani, abbandonando il ruolo che le è stato dato; il marinaio far parte di un mondo << altro >> che non è il suo. Rispetto a Pulcinella, Martin Eden è ovviamente personaggio di più spiccata caratterizzazione sociale, meno allegorica ma la similitudine mi è apparsa forte . La riflessione di Marcello e Braucci, quindi, non riguarda solo l’aspetto legato alla cultura come forma di riscatto, di esaltazione e relativa delusione. L’insistito sebbene delicato ricorso all’andirivieni della storia italiana del secolo scorso mostra un sottinteso intento politico-dididattico del film. Il confronto è quello ormai << antico >> tra le teorie dell’evoluzione di Spencer, di cui Eden è ingordo lettore e interprete, e i concetti primordiali del socialismo nascente. C’è nell’opera la dichiarata intenzione di approfondire il contradditorio tra l’ideale anarchico-socialista e tra chi invece professa l’individualismo: è qui, nella seconda parte, che l’opera diventa meno potente, più prevedibile e se vogliamo più tradizionale nonostante l’ingresso in campo di un immenso Carlo Cecchi, interprete del personaggio di Russ Brissenden. La riflessione sociale infatti appare insistita, quasi programmatica come se gli autori si ponessero e ci ponessero domande a cui nemmeno lo stesso Martin Eden cinematografico riesce a rispondere con completezza: ambiguo, infatti, il suo essere << tra >> un’ideale socialista, l’ego individuale e il compromesso che vede l’apporto del singolo necessario in nome del proprio io a favore dell’equità. Costante, invece, il senso di disgregazione di ogni ideologia, della fallacità delle illusioni paritarie nel momento in cui si scontrano con uno status quo sociale che sembra inscalfibile. Martin Eden ne è il lucido fotografo.
Luca Marinelli è Martin Eden. L’attore romano offre una prova importante, tra le migliori del suo ormai innumerevole repertorio. Determina il film stesso, continuando a cambiare stile a secondo delle circostanze, non perdendo mai di vista proprio quelle ambiguità che fanno grande il suo personaggio. All’inizio ci appare come un Massimo Troisi-è un complimento- dalla maschera disincantata per poi prendere coscienza del desiderio di rivalsa, delle differenze sociali, del proprio non sapere. Come sempre Marinelli affronta tutti i registri, giungendo nel finale a sfruttare la sua innata capacità di diventare tragico e spiritato. Ottimo anche il contributo offerto dalla composta e non banale presenza di Jessica Cressy che esalta attraverso la misura il << peso >> sociale del suo status altoborghese mentre il già citato Carlo Cecchi impiega pochissimo a far comprendere di essere la punta di diamante della nostra scena teatrale. La sua è una parte sufficientemente lunga per consentire a Martin Eden di aprire gli occhi sulla realtà e di prendere coscienza della vacuità del mondo. Il film di Pietro Marcello, pur non esente da piccole pecche, è importante, diverso, di qualità elevata. L’augurio è che imponga anche al grande pubblico e non solo a chi frequenta le piccole sale un regista dalla personalità ormai ben delineata, distante anni luce da qualsiasi omologazione. Un autore appunto.