L’impotente religione dei fratelli Coen

locandina_a_serious_man.jpgIl credo ebraico mi ha sempre affascinato. Dell’ebraismo posseggo una visione molto letteraria come credo accada a chi si è imbattuto in alcuni tra i più grandi scrittori della storia. In ognuno di loro, pur con le dovute differenze di epoche, di qualità, di stile, c’è sempre un nucleo centrale di ogni storia che vede l’individuo a rapporto con il proprio dio, con la complessa struttura religiosa ebraica, con gli insegnamenti. Il rapporto è sì di sottomissione come avviene con il cattolicesimo ma questa avviene quasi sempre attraverso un colloquio diretto, attraverso ribellioni, con un cammino che gli scrittori o i registi dipingono sempre molto bene. L’ebreo letterario è un uomo che si pone domande, mille domande. Che si arrabbia con il proprio dio, lo venera ma allo stesso tempo gli chiede i perché di un destino poco felice. A volte è un uomo che si ribella agli schemi rigidi della struttura religiosa. Chaim Potok è uno di questi scrittori che riescono con molta semplicità a spiegare il rapporto tra individuo, testi sacri, dio e i rabbini. C’è quindi una visione che fa dell’ebraismo una religione per nulla distante dall’individuo, anzi molto umana e spero mi si passi la contraddizione. La premessa era doverosa per introdurre << A serious man >>, il film dei fratelli Coen, presentato al festival di Toronto e uscito in Italia nel week end.I Coen fissano fin dalla prima scena il tema di cui parleranno: il rapporto tra uomo e religione. Lo fanno descrivendoci una storiella accaduta molto tempo prima in Polonia e recitata in yiddish. Un marito invita a casa l’uomo che lo ha aiutato a trarsi d’impaccio lungo il cammino del ritorno. La moglie, sentendo il suo nome, si convince sia un’anima posseduta, un <<dybbuk >> e quando questi varca la soglia lo trafigge con un punteruolo. Infatti è un <<dybbuk>> perché non sanguina. Ma quando sanguinerà, uscendo da casa, la certezza verrà meno. Così ci ritroviamo all’improvviso nel 1967, nel Midwest, alle prese con una classe di ragazzi che non segue una lezione di ebraico: chi dorme, chi scherza alle spalle dell’insegnante, chi ascolta i Jefferson Airplane. Dalla cuffia bianca infilata nell’orecchio dello studente – non siamo in << Blue Velvet >>-, i Coen ci portano a un altro orecchio, quello del padre del ragazzo, il professore di fisica Larry Gobnik che sta facendosi visitare da un medico. Da allora fino alla conclusione il film diventerà un rocambolesco susseguirsi di piccole tragicomiche sfortune – in pieno stile Coen d’annata pregiata- tra l’assurdo del vivere quotidiano e la ricerca, da parte del professore, di trovare qualche risposta ai propri guai in quella struttura religiosa che sembra avere sempre una certezza per tutti. Non sarà così: << A serious man >> sono le domande che Gobnik, uomo convinto del potere della matematica e del pragmatismo, vorrebbe porre ai rabbini che incontra. Nessuno di loro è in grado di rispondere sul tema della vita, nessuno offre luce, speranza. Anche loro non sanno, non conoscono. E’ il fallimento dell’idea stessa di religione che si accompagna al fallimento privato di un uomo che vede il proprio mondo, affetti, professione e forse salute crollargli addosso.Religione che nemmeno alle giovani generazioni riesce a fornire nulla di trascendente: il figlio del professore arriva al proprio << bar mitzvah >> dopo essersi fumato uno spinello e senza saper leggere l’ebraico. Riuscirà nella prova solo perché ha imparato a memoria una strofa. Il rabbino capo dal quale dovrebbe ricevere le prime grandi raccomandazioni sulla vita gli ripete i nomi dei componenti dei Jefferson Airplane. Dopo di che, mentre gli spettatori sono certi del finale ironico e allegro, i Coen ci mostrano nuvole all’orizzonte, un uragano che si avvicina, una telefonata al professore che non promette nulla di buono. Il film si conclude avvolgendoci in quella zona grigia che tanto mi piace. I Coen disarcionano gli spettatori , li lasciano nel dubbio di avere ambientato un film nel 1967 che può essere visto come un << Amarcord>> ma che in realtà è una splendida allegoria dei tempi moderni. La vena caustica spiega un mondo che si regge solo sulla logica dell’assurdo, dove la sconfitta è globale, generale. Lo spiegano gli atteggiamenti di totale impotenza a rispondere dei rabbini, quasi siano consci di quanto poco possano contare le legge divine. Non è dio a essere morto per i Coen. Ma la religione a non sapere più rispondere alle esigenze dell’individuo. A descriverlo così << A serious man >> sembrerebbe un film cupo: non lo è. Si ride tantissimo ma con altrettanta amarezza. Tra gli interpreti uno, anche per il ruolo di protagonista, svetta su tutti: Michael Stuhlbarg è Larry Gobnik. Incredulo, allucinato, vittima involontaria ma consapevole di tutto ciò che lo circonda, offre una prestazione personale di altissimo livello in un film destinato a restare tra i migliori in assoluto dei Coen, che in <<A serious man>> proseguono a tenere elevatissimo il livello fotografico e di ripresa.

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