Con Le Verità, film di apertura di Venezia 76, Hirokazu Kore-Eda prosegue il suo profondo, spesso disincantato, discorso sull’istituzione della famiglia, sulle relazioni interpersonali tra i suoi componenti. Rispetto a due già recensiti su questo blog, ne Le Verità, manca, perché ambientato in Francia, l’accenno alla disgregazione del nucleo in atto in Giappone, messa soprattutto in mostra nel 2018 nello splendido, geniale vincitore della Palma d’Oro a Cannes Un Affare di Famiglia–http://guido.sgwebitaly.it/articoli/la-famiglia-e-morta-viva-la-famiglia-questa-volta-kore-eda-entusiasma/– e in egual misura nel più distaccato Ritratto di Famiglia con Tempesta del 2016-http://guido.sgwebitaly.it/articoli/ritratto-di-famiglia-con-tempesta/. Le Verità poteva quindi rappresentare un rischio non indifferente per un autore abituato a lavorare nei suoi luoghi di appartenenza con i suoi attori feticci. Soprattutto perché il canovaccio dell’opera è una pìece teatrale che lo stesso Kore-eda aveva scritto tempo fa, dove al centro della scena c’era la relazione tra una madre e una figlia. Invece e per fortuna Le Verità è di sicuro uno dei migliori film dell’anno, mai banale, molto intelligente e più complesso di quanto non voglia sembrare. Non c’è esclusivamente la strepitosa interpretazione di Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Clementine Grenier e di chi ruota attorno a loro a giustificare il prezzo del biglietto. Esiste un contenuto forte, una riflessione molto profonda sul trascorrere degli anni, sulle piccole-grandi menzogne che allo stesso tempo diventano muri psicologici quasi inscalfibili e strumenti di pura necessità esistenziale.
La Famiglia è tema caro a Kore-Eda in quanto luogo dove il non detto e l’artifizio della finzione regnano sovrani, scandendo la vita di ognuno. Una figlia sceneggiatrice-ovvero scrittore di finzione- torna con il marito attore di piccolo calibro e la figlioletta nella splendida villa parigina di una madre che è icona del cinema francese, la quale ha appena dato alle stampe una propria autobiografia in cui si scoprirà che nulla è autenticamente vero. Così questo viaggio intrapreso tra Usa e Francia alla ricerca dell’essenza autentica della propria genitrice, questo tentativo di mettere chiarezza alle proprie radici, rischia di aggiungere crepe a crepe perché appunto attraverso la finzione-unica materia che sa maneggiare in quanto attrice- la madre cerca di sfuggire a tutto ciò che è stato il passato del rapporto tra le due mentre la figlia di fatto è già fuggita. Sono Le Verità contradditorie che uniscono e dividono Deneuve e Binoche. Entrambe vivono di pregiudizi, recitano ricordi autocostruiti per necessità-Deneuve– e per difesa-Binoche-, sui quali aleggia misteriosa la rivalità cinematografica tra l’anziana diva sul viale del tramonto e Sarah, un’amica attrice morta quando Binoche era bambina. È uno scheletro di soggetto che sembrerebbe tradizionale, ortodosso, con poche novità, frequentato almeno da un centinaio di registi cinematografici e altrettanti scrittori teatrali. Ma Kore-Eda è un fuoriclasse-altra cosa risaputa, non nuova- e sfruttando fino in fondo le potenzialità dell’impianto classico innesta la sorpresa che darà un senso ben differente a ciò che si riteneva potesse trasformarsi in scontato. Usa il cinema nel cinema: Le Verità si trasforma in breve tempo in metacinema. Da una parte c’è il film tradizionale che stiamo con grande piacevolezza vivendo, dall’altra le scene di un film che Deneuve sta girando con una giovane collega che ricorda l’amica scomparsa, Manon Clavel. Sarà proprio il luogo dove la finzione diventa veridicità, il cinema, a permettere se non altro di ricostruire un passato differente, di ristrutturare il rapporto madre-figlia e di offrire altre verità, altre giustificazioni e armonia alla vita che sta scorrendo.
Il set è il luogo deputato dove il regista giapponese porta fisicamente ogni protagonista di Le Verità. È di fronte e dietro ai riflettori, tra il mobilio di scena, le luci e i monitor che l’emozionalità determinata dai traumi esistenziali diventa quasi pura, immacolata, senza bisogno di finzione. Come se l’ottica della nostra esistenza non avesse altro orizzonte utile che il cinema: si vive fingendo per raggiungere l’essenza dei sentimenti reali laddove la finzione è nella propria cattedrale. È la contraddizione umana, è il destino degli individui a cui non sfugge nessuno dei protagonisti de Le Verità, nemmeno i bambini che osservano, partecipano, intuiscono e, alla fine,si adeguano al gioco. Così le Verità diventa lo spontaneo fil rouge di Un Affare di Famiglia. Nell’opera premiata a Cannes nel 2018, nessuno dei disincantati, allegri, poverissimi protagonisti del film aveva rapporti di sangue. La famiglia era già morta, il grande autore giapponese ne proponeva, sotto forma ironica, un modello alternativo proprio per ricostruirne il concetto. Qui va oltre nonostante l’apparato sia occidentale, francese in tutto e per tutto. Perché un altro vanto di cui Kore-eda può andare fiero è di avere riproposto le atmosfere di quel cinema unendole alla delicatezza del tratto giapponese. Mostrando ancora una volta brillantezza di idee, moderazione e tutta la leggerezza di cui è maestro. Deneuve è un gigante dalla classe inarrivabile; Binoche una figlia in cerca più di se stessa che di una madre; Ethan Hawke ha un ruolo più defilato ma non meno importante-è lui il fool shakespeariano, il punto d’equilibrio – e sono bravissimi tutti gli altri attori. Di Parigi si vede poco ma della Francia si respira l’essenza. Il magnifico ballo corale di notte per i vicoli parigini è scena che si ricorderà a lungo. Così come quell’incipit con le foglie morte di inizio autunno che macchiano l’apparente tranquillità verdastra di una natura che non si rassegna alle stagioni. Come la commedia umana con le sue innumerevoli verità.