La Zona d’Interesse: efficace, duro, martellante. Glazer tradisce il romanzo di Amis ma ne mantiene il concetto

Spiegare l’orrore in modi differenti

Potenza del cinema: credo che prima di avvicinarsi alla realizzazione di La Zona d’Interesse, Jonathan Glazer abbia letto e riletto un centinaio di volte lo splendido romanzo di Martin Amis che nel 2015, quando uscì in Italia per Einaudi, fu accolto anche con qualche mugugno, spesso dagli stessi che contestarono a suo tempo il capolavoro di Jonathan Littell, Le Benevole( il link di una mia vetusta riflessione di quel libro qui Le Benevole e la questione morale). Il problema infatti è che spesso si giudica la storia raccontata da chi sta dalla parte del torto sotto un’ottica distorta. In entrambi i casi sia Amis sia Littell cercano di comprendere l’orrore del nazismo e del genocidio degli ebrei. E dato che qui trattiamo del romanzo di Amis e, di conseguenza del film di Glazer, aggiungo una breve nota che l’autore inglese-scomparso proprio poche settimane prima della presentazione del film-ha scritto nella postfazione de La Zona d’Interesse. << Non c’era perché, ad Auschwitz. C’era un perché nella mente del Reichskanler-Presidente-Generalissimo? E se c’era, perché non riusciamo a trovarlo? Un possibile modo per risolvere il dilemma comporta un rifiuto epistemologico:non cercherai risposte >>. Questo dilemma ha accompagnato la vita di Amis a tal punto che lui stesso, sempre nella postfazione a pagina 300, commenta << la mia storia personale consiste in una stasi cronica, seguita da una specie di rinvio>> proprio perché non comprendeva. Ad aiutarlo fu Primo Levi che rispondendo a un lettore su una rivista disse che <<quanto è avvenuto non si può comprendere, perché comprendere è quasi giustificare >>. La Zona d’Interesse romanzo è nato così e Martin Amis ha costruito un racconto in cui orrore, grottesco, ironia e sentimenti vanno a braccetto. Uno dei suoi romanzi migliori ma assai complesso per struttura da riproporre al cinema. Glazer lo ha tradito per manipolazione cinematografica: ha preso spunto da due dei personaggi letterari , spogliando del tutto la trama e gli intrecci, anche sentimentali, ma spiegando in modo efficace l’orrore. E devo dire che ci è riuscito alla perfezione. Quindi va più che perdonato(guai a toccare uno dei miei autori del cuore) applaudito. Con Il Figlio di Saul-il link è Il Figlio di Saul:la devastante dissipatio humani generis di Lázló Nemes– la sua Zona d’Interesse è quanto di più eticamente duro si sia visto sull’argomento negli ultimi anni.

La famiglia felice di Auschwitz

Jonathan Glazer quindi crea le figure del comandante di Auschwitz e della sua famiglia. Come nel romanzo vivono nella villa dei sogni, soprattutto di lei, proprio accanto al muro di cinta che la separa dal campo di concentramento. La loro è un’esistenza del tutto normale. Il comandante si reca al<< lavoro>> e ritorna leggendo le favole alla figlioletta; la moglie accudisce con le domestiche la casa e migliora il proprio guardaroba indossando pellicce e gioielli degli internati. Ognuno condivide sereno questa quotidiana banalità del male. Il figlio più grande gioca con i denti d’oro che vengono portati a casa dai sonderkommando-nel film manca del tutto la figura forse principale del libro, l’ebreo Szmul- mentre in sottofondo, autentica colonna sonora dell’opera, echeggiano il crepitio delle armi, le urla degli internati. Il cielo viene oscurato dal fumo dei forni crematori e la notte dalle fiamme sprigionate dalle ciminiere. Glazer segue con freddezza i suoi antieroi; non s’inventa nulla. Documenta l’esistenza dei carnefici in banalissime giornate, illuminando la scena con colori quasi accecanti. E ti tiene incollato allo schermo.

È la struttura a fare grande il fim

La Zona d’Interesse è un film importante proprio per questo. Jonathan Glazer per descrivere l’orrore non si lancia in voli pindarici di sceneggiatura. Lavora soprattutto sul concetto di cinema, incapsulando la propria storia di allucinata normalità all’interno di una struttura in cui lo spettatore sa già di essere terzo. L’autore inglese che evidentemente deve avere i miei stessi gusti in fatto di scrittori, suo Under The Skin tratto in modo più fedele di La Zona d’Interesse dal bellissimo romanzo di Michel Faber, descrive l’incipit della sua ultima opera lasciando lo schermo nero per un lasso di tempo che sembra infinito. Il suono che scaturisce dall’audio in sala è martellante, quasi devastante come per avvertire chi osserva che sta per entrare ai confini di una realtà che è stata reale. È paragonabile a quel rumore di pugni che battono il muro nei forni crematori del già citato Il Figlio di Saul. Il nero dello schermo chiuderà anche il film, dopo uno dei migliori finali visti al cinema da parecchio tempo. Perché Glazer riesce a creare una radicale armonia tra ciò che sta raccontando-ovvero il passato-e la testimonianza del presente, sotto forma del museo dell’Olocausto di Auschwitz prima dell’orario di apertura con gli inservienti che puliscono e lucidano le vetrate con le migliaia di reperti di quella tragedia per poi riandare a ritroso nel tempo, con il comandante colto da un’improvvisa nausea a discendere le scale del comando delle SS e scomparire anche lui nel buio. Un congedo da brividi, che lascia tramortiti e che non ti consente di abbandonare la sala. Non contento Glazer inserisce in più occasioni la ripresa in negativo di una ragazza che sembra raccogliere qualcosa, come se ci trovassimo di fronte a una favola e nel prosieguo se ne comprenderà il significato. La Zona d’Interesse è un film potente e massacrante nel senso migliore del termine. Persino l’algida interpretazione dei suoi protagonisti, su tutti Sandra Hüller e Christian Friedel, si trasforma in un pugno che coglie in pieno petto chi osserva. Non si dimenticherà.

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