ROBERT PATTINSON è ,ancora una volta, all’interno di una limousine, come accadeva nel poco felice << Cosmopolis >>. Solo che in << Maps to the Stars >> si trova alla guida. È il Caronte di tutti quanti, ci trasporta all’interno del nuovo film di David Cronenberg, nella Hollywood che altri mille hanno raccontato nei libri, Bret Easton Ellis per esempio, o al cinema. Un mondo molto comodo per chiunque da prendere come metafora di qualcosa che non funziona nella società. Così se si guardasse in modo soltanto superficiale all’ultima opera del grande regista canadese ci sarebbe da rimanere delusi. Verrebbe da domandarsi quale novità l’autore forse più all’avanguardia assieme a David Lynch del cinema contemporaneo abbia inserito nella sua personale biografia con questo film. Sulle prime, appunto, nessuna. Perché gli stereotipi di Hollywood sono ben posizionati e riconoscibili quasi fossero stanze di una personale via crucis. C’è l’attrice ossessionata dal fantasma della madre famosa che vive il proprio personale isterismo psicotico tra abusi di sostanze, qualche cedimento alle gioie del sesso, la ricerca della parte importante; c’è il ragazzino prodigio che a tredici anni comanda segretari e troupe come fosse un divo universale; c’è la sua famiglia, con un padre di buona notorietà televisiva che fa il guru, il filosofo, il pensatore new age tra una villa e l’altra e la madre che accudisce e cerca di gestire la carriera del figlio. E ci sono tutti i personaggi di contorno pronti ai sorrisi di circostanza e alle perfidie da condividere con i propri agenti. Hollywood come Gomorra con gli isterismi assortiti dei propri eroi. Già visti, già segnalati, già spiegati. Solo che questo è, per l’appunto, un film di David Cronenberg e volenti o nolenti- molti recensori hanno storto il naso- di banale c’è soltanto il canovaccio. Dentro, per fortuna e per grande gioia degli spettatori che non si fermano allo scontato, prosegue con una assoluta coerenza una filmografia dove gli incidenti di percorso si contano sulla punta delle dita.
IL PRIMO ELEMENTO di rottura è l’inquietante presenza fin dalla prima scena di una ragazzina dallo sguardo spiritato e dal volto devastato dalle ustioni. Il secondo è il continuo rimando ai passi della poesia << Libertà >> di Paul Elouard. Il terzo è ciò che accadrà alla struttura stessa del film, circolare e corale, ma con tutti i protagonisti uniti, stranamente, dai medesimi incubi. Ognuno alle prese con i propri fantasmi. Zombie loro stessi che continuano a essere terrorizzati da un passato dal quale dipendono, dove gli zombie, o meglio Freaks, erano o sono i loro genitori. Così un incontro con una bimba malata terminale fa ripiombare il giovane divetto tredicenne nelle proprie psicosi; la visione continuata di un vecchio film, la cui nuova versione l’attrice in crisi vorrebbe interpretare, riporta la donna a doversi confrontare con l’ingombrante presenza della madre diva famosa morta in un rogo. Il fuoco è infine l’elemento che unisce ragazzina inquietante, il divetto tredicenne e la sua famiglia. Il fuoco arde, brucia, distrugge, incendia. Come le vite di Hollywood che è pura allegoria di un mondo che ripete se stesso fino allo sfinimento, che non si libera di ciò che ha alle spalle e che forse, per Cronenberg per ritrovare purezza e nuova base di partenza deve incenerirsi attraverso la parola, ultima frontiera della libertà perduta, ultimo fattore nuovo della nostra attualità. La poesia di Elouard, i suoi passi, spiegano il film. Il testo si inserisce nelle immagini, diventa quasi la guida di sceneggiatura per creare il film. << Sul trampolino della mia porta, sugli oggetti di famiglia, sull’onda del fuoco benedetto scrivo il tuo nome >>. Così l’apparente insensatezza delle azioni psicotiche e criminali dei più giovani è come se fosse scrittura di libertà, di purificazione. C’erano mille e ci sono stati mille modi di distruggere un mondo. Blake Edwards per mandare a carte quarantotto Hollywood ha speso una vita cinematografica passando dal leggendario, irripetibile << Hollywood Party >> al più malinconico ma non meno caustico << SOB >>. Cronenenberg invece va oltre: non è Hollywood che vuole eliminare, beffare. Sembra piuttosto evolvere il discorso iniziato con il suo terzultimo e controverso film, << A Dangerous Method >>, (su questo blog alla voce:http://guido.sgwebitaly.it/articoli/il-vero-psicanalista-e-cronenberg/). Perché in << Maps to the Stars >> l’incesto e la sua tematica rimandano direttamente a quell’opera dedicata a Freud e Jung. Direi addirittura che questa è ancora più psicanalitica. Là c’era descrizione e riflessione sul ruolo storico della psicanalisi. Qui invece siamo nel mondo dell’incesto. Incestuosi sono i genitori; incestuosi figli. È da questo punto di partenza, e non di arrivo, che il film va letto come se fosse una tragedia classica, una summa di Edipo e di Ippolito. Il ricorso alla parola con la sua forza liberatoria è forse l’ultimo mezzo concesso all’individuo contemporaneo per recuperare purezza. Così dalla tematica che studiava il corpo, quello che esplodeva negli schermi televisivi di << Videodrome >> o quelli di << Crash >>, attratti dai non luoghi degli abitacoli e dalle devastazioni fisiche come ultime frontiera dell’uomo nel voler dominare la morte, Cronenberg varca definitivamente con questo film un altro confine. I morti di << Maps to the Stars >> sono più forti dei vivi. Popolano il loro mondo, lo determinano. Può piacere oppure no, ma l’operazione non è banale ed è godibile.
MAPS TO THE STARS infatti è un film che si guarda tutto d’un fiato con interpreti che sono in forma smagliante. Julianne Moore non per niente ha vinto il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes. È lei Havanna, l’attrice sulla quarantina imprigionata dalla presenza ingombrante del fantasma materno. È la contraddizione disequilibrata che si porta appresso la società con i suoi continui cambiamenti di umore, la mancanza di sicurezze, l’ambizione e la perfidia assoluta- magnifica la scena in cui gioisce per la morte del bimbo dell’attrice che le aveva sottratto la parte- l’azione incosciente atta solo a scacciare gli incubi. E sono grandiosi i due << ragazzi >>. Evan Bird è un bimbo nato vecchio, già senza speranza, una coscienziosa visione di un non domani, un segreto da condividere con la sorella affetta da turbe psichiche Mia Wasikowska, l’angelo sterminatore, il bilanciere del film, il suo stesso motore. Tutti gli altri da Cusak a Pattinson a Olivia Williams non sono da meno in un’opera che forse non sarà la migliore ma che segna un deciso recupero rispetto all’infelice << Cosmopolis >>, dove per eccesso reverenziale nei confronti di uno scrittore come Don DeLillo, Cronenberg era inciampato più nella descrizione di un libro che nella sua rilettura (vedasi su questo blog http://guido.sgwebitaly.it/articoli/cosmopolis-il-flop-di-cronenberg/). << Maps to the stars >>, invece, è un grande film cronenberghiano, possibilmente da rivedere, perché la sua semplicità racchiude territori sterminati. Non è Hollywood che muore in questo film. È il mondo stesso che è morto. Una poesia lo resusciterà, passando però attraverso un estremo sacrificio. L’accettazione della realtà incestuosa di ognuno di noi, lo scambio delle fedi tra fratelli, il non esserci, con la macchina da presa che a poco a poco si allontana dai due corpi legati mano nella mano. Per un nuovo inizio. Anche del cinema di un immenso regista.