Jersey Boys: altra lezione di cinema di mister Eastwood

jersey boys1

NON MI SPIEGO cosa accade quando vedo un film di Clint Eastwood. È che il suo continuo vagare da un argomento all’altro, il suo variare registro, mi causano una serie di emozioni che in pochi, lo ammetto, riescono a procurarmi. Per esempio guardando la sua ultima opera, << Jersey Boys >> continuavo a sorridere, dicendomi che è proprio quello che lo spettatore desidera da un film musicale e poi facevo il paragone con << A proposito di Davis >>, convincendomi che i Cohen Brothers prima di girarlo avrebbero dovuto fare quattro chiacchiere con l’ottantaquattrenne Clint per capire qualcosina in più ed evitare di propinarci una sonnolenta operetta piaciuta soltanto a qualche intellettualoide che preferisce addormentarsi piuttosto che vedere spuntare le luci dell’alba. Perché << Jersey Boys >> non solo è l’ennesima inversione di tendenza della cinematografia di Eastwood, ma è anche e soprattutto l’occasione per il nostro eroe di tornare ad occuparsi di quella musica che alla pari del cinema rappresenta la sua stessa ragione di vita. Certo argomento e mondi di riferimento sono ben diversi da quel jazz che l’autore ha frequentato e narrato. Qui tutto scorre più leggero, data anche l’origine da musical dal quale il film è tratto, e i toni drammatici, cupi, riflessivi sono lasciati ai confini, proprio perché raccontano la storia di Frankie Valli, all’anagrafe Francesco Castelluccio, e dei Four Seasons , di come nacque quel fenomeno musicale, della crisi che come ogni gruppo che si rispetti immancabilmente coglie i suoi componenti all’apice del successo, della separazione, della grande riunificazione. Ascesa, decadenza individuale, tragedie personali, messe in scena a ritmo di musica, con la mano bella ferma sul piacere da procurare allo spettatore, al quale Eastwood vuole iniettare in vena sana leggerezza, la stessa che nonostante qualche lungaggine, lui pone nei 138 minuti di durata del film.

PERCHÉ << Jersey Boys >> ha uno schema fatto apposta per piacere. Innanzitutto c’è la sorprendente iterazione tra protagonisti e spettatori, con il personaggio di Tommy DeVito , interpretato in modo magistrale dal talentuoso Vincent Piazza, che si rivolge subito alla camera come guida iniziale che mostra dove ci si trova, l’epoca e ci introduce nell’ambiente di riferimento in cui la storia si svilupperà. E questo continuo e improvviso cercare chi osserva da parte di chi recita prosegue fino alla conclusione del film per consentire al regista di non dover fare gli equilibrismi per giustificare i salti temporali, l’andirivieni della storia tra il prima e il dopo, oltre a rendere ancora più comprensibili i caratteri dei vari protagonisti. Parlano tutti i Four Seasons di fronte alla camera; tutti tranne l’eccellente John Lloyd Young, Frankie Valli sia nel musical sia nel film, perché Eastwood non ne sente la necessità. A interessarlo è piuttosto l’empatia che coinvolge il suo eroe con colui che lo ha scoperto e fatto entrare nel gruppo, De Vito appunto. Due cresciuti dalle parti di Belleville, vicino a Newark, in un ambiente di riferimento che sembra uscito dalla biografia di Martin Scorsese, dove il gangster della porta accanto è una presenza costante; dove le porte del carcere sono << girevoli, ci entra e ci esce tutto il quartiere >>; dove alcuni si allontanano, altri no, dove il passato comunque ritorna perché nella vita non si cambia poi troppo. DeVito, per esempio, è un chitarrista di talento che non riesce ad affrancarsi da un certo modo di intendere l’esistenza. È il motore del gruppo ma anche colui che lo metterà in difficoltà. Valli, l’amico che ha un debito di riconoscenza, sacrificherà sé stesso per aiutarlo a ripianare i debiti. Materia questa ideale per l’esaltazione, l’elegia, tranello in cui Eastwood non cade. Anzi, quando il film sembra prendere pieghe strappalacrime eccolo virare subito verso l’alleggerimento.

JERSEY BOYS potrebbe essere marcia trionfale. Non è così. Cadono in continuazione i suoi protagonisti. Ma si rialzano. Si separano ma si ricompongono. Delle tradizionali tematiche di Eastwood quella del rispetto delle radici e tra uomini è la più ricorrente. Ogni presenza in scena non rinnega mai il posto da dove proviene, non mente e non tradisce mai sull’ambiente nel quale è nato, cresciuto e che in definitiva non ha mai abbandonato. Eppure la nostalgia non fa parte del film perché tutti sono coinvolti ad andare oltre, a entrare nel futuro. In << Jersey Boys >>, anzi, c’è il senso del gruppo, continuamente evocato dal personaggio di Nick Massi, l’attore Michael Lomenda che mette in secondo piano, ma solo in apparenza, le esigenze del singolo. Come se Eastwood prendesse spunto dai Four Seasons e la loro storia per fotografare un’epoca che è chiusa senza essersi rifugiata in se stessa ma che invece ha proseguito offrendo basi per un andare oltre. È forse per questo che l’autore non si sofferma più di tanto sul dramma della morte della figlia di Valli. Mostra il dolore del protagonista, ne tratteggia il dramma interiore,ma anche qui non sprofonda nel tranello dell’introspezione. Semplicemente perché in << Jersey Boys >> questa non serve, non aiuta a nulla in un contesto dinamico, perennemente in movimento, scandito da musica, debiti colossali, amori, disgregazioni familiari, ricomposizioni, dove si cade ma ci si rialza. Da un certo punto di vista gli << eroi >> canterini che calcano sale di incisioni e palcoscenici non sono altro che il naturale alter ego degli zombie hollywoodiani descritti mirabilmente da Cronenberg in << Maps to the Stars >>. Così Clint Eastwood canta e suona assieme a loro: la vita e la gioia che procura la lotta per arrivare dove si vuole e dove si può.

UN FILM del genere in cui trova posto persino la biografia del giovane Jo Pesci, fautore dell’arrivo del compositore Bob Gaudio- Erich Bergen nel film e nel musical- gioca molto con gli stereotipi e dispensa umanità a tutti coloro che vi prendono parte. Non esiste negatività nemmeno nel marciume, non c’è nessun personaggio che procuri allo spettatore un senso di distacco, di non partecipazione. La sceneggiatura è scoppiettante, dispensa battute geniali, da prendere a nolo e usare all’occorrenza. E chi recita, avendo l’esperienza del musical- uno dei grandi successi del botteghino Usa- si trova a meraviglia. La coralità è premiata ma spiccano su tutte la bravura di Piazza, grande Lucky Luciano in Boardwalk Empire, di Lloyd Young e la classe divertita di un grande << vecchio >> del calibro di Christopher Walken, che addirittura nel gran finale balla e benissimo assieme a tutto il cast. Clint Eastwood, piaccia o non piaccia, ha ancora tanto da insegnare e da offrire al cinema. E chi considera questa sua penultima fatica- è già impegnato in un altro progetto- come opera minore si sbaglia di grosso. Perché affrontando un genere da lui mai frequentato, comunque nelle sue corde, dimostra ancora una volta di avere le idee chiarissime. Spreme il mezzo perché lo conosce. Sa quando farci piangere, riflettere. E sa anche quando è tempo di sorridere in modo intelligente. Questo per esempio.

Condividi!