Coda: un film piacevole. Ma gli Oscar dovrebbero essere altra cosa

Furbo e strappalacrime:una ricetta vincente

L’IDEA malsana che gli Oscar dovrebbero andare ai migliori film dell’anno precedente continua a essere ribaltata dalla ferrea legge del mercato e soprattutto dei produttori e distributori. Coda, acronimo di Child of deaf adults, ha fatto incetta di premi in giro per il mondo e non si è smentito nemmeno nella serata della grande festa hollywoodiana. È aritmetica bellezza, direbbero i bene informati. Coda ha proprio tutto per piacere al pubblico che già l’aveva gustato in streaming: una storia strappalacrime di unione e emarginazione, interpretazioni da applausi a scena aperta, un finale ottimistico, una regia svelta e dinamica, una colonna sonora romantica da tenere la fidanzatina delle medie accanto a sé mentre si osserva l’orizzonte. La somma di questi ingredienti fa sì che Coda, dopo avere conquistato gli abbonati di Apple TV, faccia altrettanto con chi lo guarderà al cinema o sui canali della piattaforma Sky.

Il rovescio della medaglia di Sound of Metal

ALL’OSCAR dell’anno precedente si era avvicinato un altro film che riguarda la sordità, il bellissimo Sound of Metal di Darius Marder-la recensione qui https://guidoschittone.com/sound-of-metallesaltante-riz-ahmed-ci-porta-oltre-la-storia-di-un-film-ipnotico/-in cui il batterista Riz Ahmed perdeva progressivamente l’udito e cercava disperatamente di ritrovarlo. Coda è molto lontana da quei temi e da quella profondità: il film di Marder resta uno splendido esempio di allegoria sul mondo della comunicazione, di cui il silenzio è probabilmente l’unico rumore assordante che il contemporaneo ci regala. Coda non si spinge in letture introspettive particolari né ha la pretesa di farlo. La sua arma principale è la semplicità con la rivisitazione del discreto film francese di successo del 2014, La Famiglia Bélier, ambientato in questo caso nel delizioso villaggio di Glouchester nella contea di Essex nel Massachussets con relativo cambio della professione dei protagonisti da venditori di formaggi a pescatori.

Il cambio di prospettiva rispetto all’originale

La regista Sian Heder opera però alcune leggere modifiche rispetto al film originale. Sfrutta soprattutto il personaggio di Ruby per seguirla nel suo tribolato cammino verso la maturià, all’inseguimento del sogno di diventare cantante, divisa tra l’esigenza di affrancarsi dalla zona d’ombra in cui vive e l’essere allo stesso tempo l’unico medium comunicativo tra chi non parla e non sente, la sua famiglia, e il mondo degli altri. Coda gioca con questa divisione interiore fin dalle prime scene, lasciando sullo sfondo, come convitato di pietra, l’isolamento sociale di padre, madre e fratello. Ed è un pregio, perché puntando forse in modo semplicistico sulla storia postadolescenziale, riesce con piccoli tocchi a fare emergere il dramma di non potere esprimersi se non a gesti ai più incomprensibili.

Tra commozione e scene madri

Film decoroso, tutto all’insegna dei buoni sentimenti e dell’odioso politicamente corretto, Coda vive i suoi momenti migliori soprattutto nelle due scene madri che precedono l’happy end finale. Una scandita dal silenzio, l’altra con il commovente incontro risolutivo tra padre e figlia. Il merito è anche degli interpresti con Emilia Jones molto credibile a tal punto da non far rimpiangere Joni Mitchell nella sua versione di Both Sides Now, e Troy Kotsur perfetto nella parte del padre che gli ha regalato l’Oscar per l’attore non protagonista. Per il resto tutto è godibile, piacevole come si conviene a quelle opere a cui non si domanda troppo e che preferiscono accennare alle barriere sociali piuttosto che affrontarle. Da qui a fare incetta di premi ce ne passa. Evidentemente i giurati dell’Academy, oltre a quelli di altri concorsi, l’hanno pensata in modo diverso. Contenti loro, contenti tutti.

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