L’amara riflessione di Aaron Sorkin sulla malagiustizia

Non esiste processo politico

<<Il processo è civile o è penale: non esiste processo politico >>. Con queste parole, l’avvocato William Kunstler, il sempre bravissimo Mark Rylance, rampugna nella prima parte de Il Processo ai Chicago 7 il suo << cliente >> Abbie Hoffman, l’impareggiabile Sacha Baron Cohen che aveva già compreso la piega degli eventi successivi. Siamo nel marzo del 1969 e quel processo contro i presunti mandanti della durissima contestazione avvenuta nel 1968 a Chicago nei giorni della convention del partito democratico diventerà uno degli esempi più cristallini di malagiustizia della storia statunitense. È proprio la battuta di Kunstler a specificare quale sarà la tipologia di film che lo spettatore andrà a vedere e gustarsi: l’impotenza del cittadino contro una serie di accuse pilotate per interessi politici, discorso quindi che dal particolare, gli Usa appunto, si espande all’universale.

Sei candidature all’Oscar non per caso

Dopo interminabili rinvii produttivi, indecisioni, rinunce, Il Processo ai Chicago 7 è stato affidato a colui che ne aveva scritto la sceneggiatura originale quando Steven Spielberg voleva realizzarlo, ovvero Aaron Sorkin. Il risultato non ha bisogno di molti commenti: il film ha sei candidature all’Oscar e soprattutto è un ottimo esempio di come si possa creare spettacolo e divertimento non abbandonando mai né la profondità del discorso né la coerenza narrativa. D’altronde Sorkin ha un curriculum alle spalle tale da poter essere definito il re della navigazione nelle faccende che riguardano l’apparato politico, giudiziario e informativo degli Usa. La sua serie tv The Newsroom, per esempio, andrebbe mostrata quotidianamente agli studenti dei moderni corsi di giornalismo.

Le leggerezza dona brio alla riflessione

Il segreto delle sue sceneggiature è la capacità di sapere scavare a fondo nella parte meno visibile dei personaggi offrendo loro nel contempo la necessaria leggerezza capace di coniugare le esigenze dello spettacolo con la riflessione. Il Processo ai Chigago 7, suo secondo film dopo Molly’s Game, conferma che oltre a saper scrivere, viene considerato il miglior sceneggiatore di Hollywood e il curriculum lo dimostra, Sorkin sa anche dirigere e sfruttare appieno la capacità di un cast importante, dove abbondano le prime donne. C’erano vari modi per avvicinarsi a una materia così complessa e allo stesso tempo frequentata dal mondo del cinema: Sorkin tiene fede alla propria specificità e orchestra il tutto come un vero e proprio musical con i personaggi che invece di cantare recitano battute a raffica, passando dall’ironia mai banale al dramma collettivo e individuale che stanno vivendo. Ciò che poteva essere rappresentato con il sistema classico del film di denuncia viene quindi trattato alla stregua di una commedia brillante in superficie ma molto profonda nei propri contenuti.

Il dramma di una doppia sconfitta

In questo modo Sorkin cattura l’interesse della moltitudine, allontana ogni noia non perdendo mai di vista il fine ultimo della narrazione:la doppia tragedia della perdita di qualsiasi intento di giustizia da parte di chi dovrebbe assicurarla e il sospetto della futura sconfitta dell’idealismo di quella lunga stagione che cambiò il paradigma culturale del mondo ma non la sua realtà. Il regista ci riesce affidandosi alla continua alternanza tra sagaci battute degli uni e degli altri, momenti di puro virtuosismo attoriale e un montaggio furbo e intellgente, che prevede spezzoni originali, assai rari, di ciò che accadde a Chicago nel 1968 e discorsi fuori da ogni spazio temporale e di luogo, forse in occasione degli scontri forse dopo, da parte del personaggio di Baron Cohen che entra nei dettagli, rafforzando quella verità degli avvenimenti negata agli imputati. Il film non rinuncia nemmeno a mettere in luce le divisioni motivazionali che anteponevano il variegato mix di contestatori dell’epoca: gli aderenti alla Youth International Party di Abbie Hoffman, quelli << radical borghesi>> dell’SDS, Students for a Democratic Society di Tom Hayden e i fautori della non violenza ghandiana come David Dellinger giunti a Chicago per protestare contro la guerra in Vietnam.

Baron Cohen primus inter pares

Un film del genere per centrare gli obiettivi del proprio regista-sceneggiatore ha bisogno di un cast di livello superiore. A leggere i titoli di testa sembra di vivere un’autentica bulimia di star. Ad ognuna di esse non viene negato il giusto spazio, nessuna è comprimaria dell’altra perché i personaggi non sono mai tratteggiati in modo superficiale. Sorkin disegna sfumature individuali anche per quelli di contorno, facendo della coralità recitativa uno dei punti di forza della propria opera. A Sacha Baron Cohen spetta il ruolo de il primus inter pares perché l’attore britannico riesce ad appropriarsi del personaggio di Abbie Hoffman, delle sue contraddizioni, dei suoi ideali, della sua capacità di intuire prima di tutti gli altri la trama perversa del connubio politica-giustizia che stava dietro alle accuse. Grazie alle mille sfaccettature che riesce a offrire si è guadagnato la candidatura all’Oscar come migliore attore non protagonista.

Il cast valore aggiunto dei Chicago 7

Frank Langella è un perfetto giudice Julius Hoffman : odioso, saccente,indisponente, smaccatamente ingiusto rivaleggia in bravura con tutti gli altri da Eddie Redmayne, che impersona Tom Hayden, a Mark Rylance, l’avvocato Kunstler, il sempre più bravo Jeremy Strong, efficace nella parte di Jerry Rubin, l’ottimo John Carroll Lynch, grande caratterista che impersona Dellinger, fino alla maschera dubbiosa, molto umana del procuratore Richard Schulz, alla quale Joseph Gordon Levitt offre molta forza, nonostane le poche battute a disposizione. Il tutto impreziosito dall’improvvisa apparizione di Michael Keaton, la cui innegabile classe dà vita all’unica voce libera delle stanze del potere, quella dell’ex procuratore generale sotto la presidenza Johnson Ramsey Clark. Come andarono a finire le cose è risaputo e quali strade intrapresero le vite dei protagonisti di quella brutta pagina di giustizia pure. Aaron Sorkin non procede a tesi-sarebbe stato fin troppo facile- mostra i fatti regalandoci un film molto più importante e attuale di quanto possa sembrare a una visione superficiale. Il Processo ai Chicago 7 è visibile su Netflix.

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