Bones and All: nutrirsi di vita per scoprirla. È delicata la favola sentimentale di Luca Guadagnino

Questa volta i freaks sono cannibali

Bones and All di Luca Guadagnino gioca con il genere per parlarci di sentimenti e di come, attraverso questi, si possano trovare motivazioni esistenziali quando si vive, per destino e non per scelta, ai margini della società. I suoi protagonisti sono cannibali ma della migliore specie. Pagano il peccato di essere nati da chi non doveva nascere, pagano peccati altrui, pagano una disperazione congenita. Sono i Freaks di Tod Browninghttps://guidoschittone.com/freaks-benedetto-sia-il-cinema-maledetto/-sotto forma di cannibali necessari. Guadagnino li inserisce nello sterminato panorama del midwest americano degli Anni’80, lungo un non banale viaggio on the road. Il viaggio nella sua più classica accezione: la strada come mito e metafora, ricerca delle radici, evoluzione individuale, presa di coscienza di sé stessi. Nastri d’asfalto da divorare per raccontare storie.

Come i vecchi attorno al fuoco

<< Non bisogna avere paura delle pistole se le usa un buon tiratore. Il cinema è la stessa cosa:dipende da come lo usi. A me piace usarlo per raccontare delle storie attorno al fuoco >>. Sono parole dette da John Milius in un’intervista pubblicata nel 1979 nel secondo volume di Hollywood 1969-1979, industria, autori, film edito da Marsilio per la rassegna Nuovo Cinema di Pesaro. È lezione che Guadagnino deve avere fatto propria. Il suo, e dello sceneggiatore David Kajganich, Bones and All è un mezzo per costruire una favola. Perché il film è soprattutto un racconto di iniziazione alla vita sotto forma di fiaba contemporanea. È questo prendere per mano lo spettatore la parte migliore dell’opera. Il resto è semplice ed è evidente. C’è ben poco da comprendere nella storia di Maren e Lee: sono nati cannibali, una va alla ricerca della madre per capire come è arrivata al proprio presente, l’altro in fuga perenne da un fatto tragico e da sé stesso. Cibarsi degli altri è allegoria di nutrimento esistenziale, di ubriacatura di vita. È allegoria della fase di passaggio da giovinezza e maturità. Sublimata dal momento dell’amore. È tentativo di emanare luce da parte di chi fino ad allora è stato costretto a frequentare le ombre.

Il paesaggio vale di più di una quinta.

DA sempre Guadagnino sperava di poter girare un film negli Usa. Ci è riuscito negli anni della maturità, alla sua settima opera, mantenendo però tutta la freschezza del sogno americano che ha contraddistinto la sua e le generazioni precedenti. L’America di Bones and All è quella immaginifica che ha riempito le nostre fantasie: strade che non paiono avere mai una fine, orizzonti a custodire il mondo, la sensazione di libertà, il mid west più vero, le baracche, le misere abitazioni, i contrasti. Sono luoghi ideali per rendere in modo concreto il concetto di favola. Nel loro lungo viaggio Maren e Lee incontreranno i personaggi che si trovano in ogni storia che si rispetti: la gente della stessa tribù, quelli che si riconoscono dall’odore, i solitari, i perfidi, ognuno di essi escluso da una società che non viene mai mostrata ma si percepisce. In radio e televisioni risuonano le voci di ciò che erano gli Anni’80 negli Usa-ma non molto è cambiato- con il reaganismo, lo spettro delle malattie sessuali e via dicendo. Questa commistione tra magia paesaggistica, fotografata in modo sublime da Arseni Khachaturan, e improvvisi richiami sociopolitici è una delle armi usate alla perfezione nel film. E per sognare la vita ci si nutre di libri, Tolken e Joyce come guide ideali.

A lungo andare il film perde efficacia

PURTROPPO Bones and All perde efficacia per l’eccessiva lunghezza. L’opera rischia di ripetersi e di impantanarsi nella seconda parte. Una sforbiciata in sede di montaggio avrebbe reso più dinamica l’azione e più incisivo il colpo di scena del prefinale. Nel complesso è un film che conferma le qualità del suo regista e degli attori che lo hanno accompagnato in questa avventura: il migliore del cast è Mark Rylance, capace di trasformarsi in strambo e crudele cannibale tout court. È lo specchio che di fronte hanno i due ragazzi, la dolcissima e molto nella parte Taylor Russell e l’ormai navigato Timothéè Chalamet. Il personaggio di Sully-Rylance è ciò che potrebbero diventare. È colui che definisce il loro stato. È un inquietante grillo parlante che si trasforma in orco. Combattuto, umano nell’ansia di un amore impossibile e nella solitudine a cui è condannato. Per crescere dovranno affrontarlo. Una nota di merito va anche a Michael Stuhlbarg che sta in scena pochissimo ma quanto basta per restare ben impresso nella memoria. L’ultima annotazione, non casuale, è riservata alla scelta delle musiche. Dai Kiss ai New Order per arrivare alla splendida Atmosphere dei Joy Division. Proprio in questa canzone c’è il succo profondo di Bones and All. << Cammina in silenzio. Non allontanarti, in silenzio. La tua confusione, la mia illusione indossate come maschere di odio di sé stessi>>. Non lo sapeva ma Ian Curtis cantava di Maren e Lee. Bene ha fatto Guadagnino a ricordarlo.

Condividi!