Bardo: il non luogo di Iñárritu dove l’onirico stanca e l’eccesso di narcismo soffoca le intuizioni

Confuso e a volte insopportabile convince solo a sprazzi

ALEJANDRO González Iñárritu con Bardo ci porta nel mondo dei sogni. Lo fa alla sua maniera con innegabile maestria scenica ma con una sceneggiatura che appare confusa, sfuggente, non dando mai allo spettatore l’impressione di essere dentro a una storia. Ed è proprio questo, più che la lunghezza eccessiva della sua ultima opera, il limite principale del film. Che alla fine, pur riscattandosi parzialmente nell’ultima parte-sempre che qualcuno riesca ad arrivarci- appare fredda, distante, non coinvolgente. Troppe situazioni non funzionano in Bardo. Perchè è vero che l’onirico deve essere accettato come tale- nessuno ne ha mai dubitato- ma è altrettanto vero che se il sogno viene spogliato della propria poesia diventa semplicemente una stramberia e non più una fascinazione. Ecco, in Bardo mancano l’una, la poesia, e l’altra, la fascinazione che ne è diretta conseguenza.

L’esule Silverio Gama viaggia nei propri ricordi

IL BARDO nel credo buddista tibetano è lo stato di passaggio in cui l’uomo si trova in punto di morte. Un limbo tra un prima, l’esistenza, e un probabile dopo. È il non luogo dove si affastellano i ricordi del giornalista Silverio Gama, l’alter ego del regista. Sono storie e allegorie che ruotano attorno al suo essere diventato esule messicano negli Usa, dove ha trovato il successo internazionale. Attorno a questo status Inárritu inscena una sorta di Otto e mezzo personale, in cui il senso di colpa sul successo acquisito diventa l’occasione per riflettere sul Messico, le sue contraddizioni, la sua relazione con gli Stati Uniti e abbandonarsi appunto a un insieme di fantasticherie, spesso slegate l’una dall’altra, che privano Bardo di una continuità narrativa necessaria per far breccia in chi osserva. Deboli sono spesso i dialoghi, troppo esplicite le allegorie su cui Inárritu insiste-una su tutte la scena dell’inizio in cui il neonato viene riportato nel ventre della madre perché il mondo fa schifo– ed evidenti i rimandi a certo cinema felliniano. Tanto che le parole dette in una delle scene centrali dal personaggio di Luis a Silverio sembrano quasi riferirsi all’impressione che desta il film stesso:<< È pretenzioso, inutilmente onirico. Lo è per mascherare una scrittura mediocre >>. Certo, si tratta di uno spezzone di un dialogo ma la sensazione è che questa volta l’autore messicano, lasciando parlare il cuore e non la testa-come sostenuto da lui stesso-sia caduto nella sindrome che in passato ha già colpito, con risultati opinabili, altri suoi colleghi, Sorrentino per esempio: l’autoreferenzialità narcisistica.

La forma salva il contenuto

CIÓ che salva Bardo dal naufragio è la forma. Il film ha momenti di bellezza assoluta. A partire nell’incipit dal tentativo di librarsi in aria da parte di un’ombra quasi si sia in presenza di un novello Birdman fino ad arrivare alla scena che in assoluto vale tutto il film, quando da un’urna viene raccolto un neonato in miniatura, poggiato nelle mani della madre e accompagnato verso l’acqua dell’oceano, da dove scomparirà. Quel neonato…mai nato che ricorre in continuazione nel film, evocato, mostrato, sognato, il bambino che inconsciamente Iñárritu in questo film vuol far uscire da sé stesso: è il Messico che emette i vagiti e poi diventa polvere. Nella memoria restano poi gli scomparsi in una Città del Messico che all’improvviso diventa un infinito cimitero di corpi caduti in strada, chiaro rimando alle stragi di Tlatelolco del 1968 e a El Halconazo del 1971 per poi tramutarsi in una montagna di indios inermi e nudi su cui poggia il fantasma di Hernan Cortéz con il quale il giornalista Silverio avrà un lungo colloquio chiarificatore sulla conquista del Messico. È il grande merito del direttore della fotografia Darius Khondji– da Haneke a Allen, da NW Refn a Wong Kar-Wai le sue collaborazioni- capace di lanciare la scialuppa di salvataggio a un’opera altrimenti fallimentare.

La consacrazione di Daniel Giménez Cacho

BARDO si regge sulla convincente interpretazione di Daniel Giménez Cacho. Il suo Silverio è un uomo in crisi che si aggira con aria trasognata e dubbiosa nei vari mondi di questo non luogo immaginario in cui si svolge il film. Per l’attore spagnolo(non si perda il suo Fernando Barrientos nella serie tv Un Extrano Enemigo https://guidoschittone.com/un-extrano-enemigoe-superlativa-la-prima-serie-e-la-seconda-non-delude/)è la consacrazione definitiva di una carriera di enorme qualità che solo negli ultimi anni lo sta portando alla sacrosanta notorietà internazionale pur avendo nel suo curriculum film di tutto rispetto. È lui che si sobbarca il peso di questa fantasticheria che poco aggiunge alla cinematografia del suo regista pluripremiato agli Oscar. Per Iñárritu si tratterà probabilmente di un punto di svolta, di una linea di confine a cui è giunto. Dopo Bardo e questa liberazione dai ricordi si spera possa riprendere a fare il cinema ispirato a cui ci aveva abituato e che il divorzio professionale con lo scrittore Guillermo Arriaga già aveva minato, almeno secondo il mio gusto. L’avevo scritto a proposito di Birdman https://guidoschittone.com/birdman-che-seduce-e-abbandona-mancano-carver-e-arriaga/ e lo ribadisco: Iñárritu e Arriaga erano perfetti assieme: il secondo gettava solide basi di scrittura e soggetto, il primo si lanciava nelle sue visioni. Ma i tempi di Amores Perros, 21 Grammi e Babel sono lontani. E con essi il loro fascino.

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