Birdman che seduce e abbandona. Mancano Carver e…Arriaga

NEL 2014, nella notte degli Oscar, si sfidarono Nebraska, 12 Anni Schiavo, American Hustle, Dallas Buyers Club, The Wolf of Wall Street,Her, Gravity più Philomena e Captain Philips. Escludendo gli ultimi due si trattò di un’edizione superiore alla media che portò all’esclusione dalla rosa dei candidati di altri film importanti, penso per esempio a Behind the Candelabra che avrebbe meritato di entrare nella rosa dei candidati. Quest’anno, che si riferisce ai film prodotti negli Usa nella scorsa stagione, la rosa degli Oscar era indubbiamente più debole e fiacca. Il film autenticamente più fantasioso e geniale, Grand Hotel Budapest, ha collezionato premi minori. Quello più teso e interessante, Whiplash ha portato a casa soltanto la statuetta per l’attore non protagonista, ammesso e non concesso che l’interpretazione e il ruolo svolto nel film da J.K.Simmons siano da considerare secondari, il che non mi è sembrato. Alla fine il trionfatore è stato l’ultimo film di Alejandro Gonzalez Inarritu, Birdman che si è guadagnato ben quattro statuette. Meritate? Non troppo, secondo noi. Birdman infatti è un film le cui ambizioni sono ben superiori a ciò che in realtà poi viene mostrato agli spettatori. Non siamo in presenza di un film brutto, sia chiaro. Ma di un film che mette troppa carne al fuoco, nemmeno innovativa e poi spiegheremo perché, non risolvendola e anzi perdendo per strada a poco a poco le buone intenzioni. Così si assiste a un’opera molto divertente e ben riuscita nella prima parte che poi si avvita su se stessa nel momento decisivo. Peccato perché le qualità di regia e di intuito del regista messicano sono merce rara ma forse trovano il limite nel continuo assillo da parte di Inarritu di voler dimostrare di essere il migliore tra tutti. Così tradendo l’ottimo spunto iniziale, Birdman invece che atterrare sulla terra si libra come il suo protagonista in aria e lascia tutto in sospeso, facendo del film un gran pasticcio di buone intenzioni ma poco altro.

L’ATTORE da cassetta Riggan Thompson noto per avere interpretato la parte del supereroe Birdman vuole affrancarsi dall’etichetta che gli è stata appiccicata addosso e si da al teatro impegnato, mettendo in scena una libera trasposizione della serie di racconti carveriani Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. La compagnia impegnata nelle anteprime newyorkesi è una nevrotica composizione di rivincite esistenziali: c’è l’attrice che non ha mai calcato il palcoscenico di Broadway, un’altra che è l’amante dell’interprete principale e l’attor giovane ma già affermato che aderisce ai personaggi seguendo il proprio metodo con una apparente e disarmante semplicità. A corollario, dietro le quinte, si aggira la figlia di Thompson, appena uscita dalla riabilitazione da stupefacenti e nei momenti cruciali spunta all’improvviso anche la ex moglie. Come da prammatica, poi, ci sono il produttore a caccia di soldi per finanziare lo spettacolo e l’immancabile, severa, algida e forse frigida potente e spietata critica teatrale del New York Times che se ne sta in un bar a fianco a sorseggiare Dry Martini e a scarabocchiare giudizi su un taccuino. Umanità già vista; personaggi quasi fissi in ogni partitura cinematografica che tratti di arte e teatro. Fin qui nulla di nuovo. Per chi conosce il cinema di Inarritu ci si attenderebbe il suo tradizionale film << circolare >>, con varie storie che sembrano essere isolate e che poi, come per magia, confluiscono l’una nell’altra. Ma questa volta il regista messicano decide di cambiare registro. Non ha più alle spalle la sceneggiatura di quel grande scrittore che è Guillermo Arriaga, al quale si deve gran parte del successo dei primi film di Inarritu , Amores Perros, 21 Grammi e Babel. Si deve arrangiare affidandosi alla sua proverbiale fantasia e abilità tecnica. La seconda gli riesce alla perfezione perché Birdman è una gioia per gli occhi, anche se alcune scene, soprattutto quelle della seconda parte riguardanti proprio l’eroe alato appaiono un po’grossolane . È la fantasia che fa cilecca. Appare come frenata. Si illumina solo agli inizi: lancia tanti di quegli argomenti di riflessione che un solo film non basterebbe a svilupparli. La dicotomia uomo-attore;la crisi dell’uomo di mezza età; il peso del passato; la gabbia del personaggio; il confronto con la propria anima; la superficialità della critica; l’accorgersi di vivere in un’epoca in cui i parametri di gusto e cultura sono cambiati; la ricerca del tempo perduto; il confronto duro e affascinante con il proprio alter ego; le indecisioni sentimentali;il teatro come occasione di riscatto. Ognuno di questi rapporta all’altro ma, ahinoi, Inarritu non riesce nell’impresa. Cerca, forse per ambizione smodata, di accordarsi a tutti i registri, passando dal comico al grottesco al drammatico al riflessivo ma perdendosi nella parte finale in un volo che non lo fa atterrare proprio da nessuna parte. Un peccato perché la prova del cast è strepitosa in tutti i componenti e la direzione degli attori ineccepibile così come la capacità di scrittura di battute frizzanti, tappi di champagne che nella prima ora danno ritmo, divertimento, gioia. È dopo che il giochino inizia a non funzionare. Quando nell’ansia di riportare tutto quanto alla sacralità inizia a perdere per strada personaggi fondamentali, Edward Norton soprattutto al quale lo script preferisce far vivere una scontata storia d’amore con la figlia di Riggan, concentrandosi sulle paturnie e introspezioni irrisolte del proprio protagonista Michael Keaton che purtroppo sono le stesse dell’incipit e che alla fine restano sul tavolo delle buone intenzioni, facendo scomparire dal film il fascino che aveva e che Inarritu sa, come pochi al mondo, spargere nelle proprie opere, più fascinose appunto che riuscite in toto.

RESTA quindi l’impressione di essere stati sedotti ed abbandonati nel momento migliore. L’autore messicano opta per un finale che sa di commozione posticcia, non piazza la cattiveria, lo sguardo crudele. Dilapida il patrimonio che si era guadagnato nella ricerca esasperata di originalità che va all’opposto, trasformandosi in una favoletta scontata. Sia chiaro Birdman è un film da vedere, non si rimpiangono gli otto euro del biglietto non fosse altro per la prova corale degli interpreti, tutti al massimo della forma. Michael Keaton, nella parte del protagonista, recita anche se stesso e il suo passato.Edward Norton è il solito portento in grado di passare in un secondo dal massimo della brillantezza alla cupezza assoluta. Naomi Watts fa il suo come sempre ed è bravissima Emma Stone, a dimostrazione che negli Usa c’è un esercito di giovani attori che avranno una carriera importante perché hanno talento e fondamentali. Qualità che non mancano di certo a Inarritu ma che ancora una volta non si esprimono compiutamente. Raymond Carver non era solo un ubriacone che lasciava ringraziamenti scritti su tovaglioli da bar ai ragazzi che mettevano in scena i suoi scritti – << Grazie per l'onesta interpretazione >> e successiva spiegazione da parte di Edward Nortonè una delle battute più efficaci dell’intero film- ma il poeta della semplicità e dell’efficacia. Lo scrittore di short stories dallo sguardo tagliente, disincantato, malinconico, tragico che fece a pezzi il sogno americano,portando il dramma individuale dell’esistenza in una letteratura senza sconti. In Birdman si parla di Carver ma nulla c’è di Carver e questo non sfruttare l’occasione, non unire la poetica di chi viene messo in scena al travaglio di Keaton è un errore, forse il principale. Birdman quindi si riduce a uno spreco formalmente molto bello, non da annale del cinema. Quasi quasi sarebbe meglio che Arriaga e Inarritu tornino a parlarsi e soprattutto a lavorare assieme.Ci guadagnerebbero entrambi. Il primo, perché dopo il flop di The Burning Plains, ha dimostrato di non essere un regista, il secondo perché perdendo il suo sceneggiatore non è più riuscito a esprimersi come avrebbe potuto. Anche in Birdman, nonostante gli Oscar.

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