A Monceau dove sono stato senza esserci

la-fornaia-di-monceau.jpgLa morte di Eric Rohmer è stata salutata con grande partecipazione. Era naturale che accadesse perché il personaggio era assai curioso. Tanto silenzioso e schivo in pubblico, l’uso dello pseudonimo con lui si è trasformato quasi in un’acquisizione di nuova identità universale, quanto <<logorroico>>nella propria opera. La scomparsa di Rohmer riduce a poche unità quel numeroso gruppo di cineasti, giovani, ribelli e spesso l’uno molto differente dall’altro, che tra la fine degli Anni’50 e l’inizio degli Anni’60 diedero vita alla <<nouvelle vague>>, un movimento che non fu regionalista, non si limitò a influenzare il cinema francese, ma divenne universale. In Rohmer c’è la platealità di un’intuizione: vedere il cinema non solo come uno strumento di espressione dell’immagine, come creatore di spettacolo, ma come naturale proseguimento della pagina scritta, della letteratura. In questo Rohmer e Truffaut sono stati molto simili come approccio. Il secondo celebrò questa commistione in uno splendido film da non dimenticare, <<L’uomo che amava le donne>>, nel quale il film a poco a poco si trasforma in libro seguendo le avventure del proprio protagonista. Non a caso Truffaut prendeva spesso spunto per i propri soggetti da romanzi o racconti. Fu così con <<Le due inglesi e il continente>>, con <<Fahreneit 451>> o con <<La camera verde>>.Rohmer, invece, produceva contenuti originali. Da professore di letteratura creava lui stesso i propri soggetti girando attorno a temi solo all’apparenza leggeri, al mistero dell’incontro tra un uomo e una donna, al caso che determina la vita, alla riflessione sui significati universali dell’esistenza. E’stato un poeta dell’amore, della sua impossibilità, delle coincidenze. Ha usato l’io narrante per delimitare l’azione della cinepresa, ha seguito i propri protagonisti con apparente distacco, fissandosi sempre su particolari precisi, creando un tipo di narrazione secca, affidando alla riflessione dei suoi protagonisti la lenta ma costante evoluzione della trama.  C’è un film di Rohmer che mi ha <<segnato>> in gioventù. E’il suo primo racconto morale, un mediometraggio rimasto nella leggenda della <<nouvelle vague>> e di chi ama il cinema. S’intitola << La boulangere de Monceau>>: è una storia semplice. Due studenti incontrano spesso nell’ora di pausa universitaria una ragazza, Sylvie. Il narratore riesce a conoscerla e a strappare un primo appuntamento, al quale Sylvie non si presenta. Avendola spesso vista in posti precisi mentre rincasava, cerca disperatamente di ritrovarla e inizia a percorrere tragitti che portano tutti nella stessa zona, dove c’è una bottega di fornaio. Un giorno il narratore vi entra e viene servito da una ragazza formosa, agli antipodi della raffinatezza di Sylvie. Così il narratore, che nella storia non ha nome, diventa un abitudinario:da una parte continua a percorrere la stessa strada nella speranza di ritrovare Sylvie, dall’altra finisce sempre dal fornaio dove inizia a prendere confidenza con la ragazza che lo serve. Finché non si decide di chiederle un appuntamento. La fornaia accetta. E’ l’amor profano, sensuale, carico di erotismo. Ma mentre sta nascendo il primo appuntamento, dall’altra parte della strada il narratore- guarda caso la voce è di Bertrand Tavernier– si accorge di una signora che aiuta una ragazza ingessata: è Sylvie. Abita proprio di fronte al fornaio. Si è fatta male il giorno in cui avrebbe dovuto incontrare il narratore . All’improvviso c’è una dissolvenza: dal bianco-nero il film diventa a colori, cambia la scena. Siamo al ristorante della Torre Eiffel con narratore e Sylvie a cena. La voce fuori campo ci avverte che i due dopo sei mesi si sarebbero sposati e lui non avrebbe più saputo nulla della fornaia di Monceau. Fine. <<La boulangere de Monceau>> dura 26 minuti. Tutto il lavoro seguente di Rohmer sarà influenzato da questo piccolo mediometraggio, ne rappresenterà un’evoluzione, un naturale sviluppo. Rivederlo oggi mi mette gli stessi brividi di un tempo. E’uno dei film che mi ha <<rovinato>> la vita, che mi ha impostato come uomo, che mi ha fatto inseguire il caso, che mi ha offerto speranze e delusioni, che mi ha trasportato nella maturità con quelle idee sull’esistenza che molti possono giudicare opinabili e che io continuo a tenermi strette. Perché Rohmer e molti della <<nouvelle vague>> non ci hanno parlato di cinema nel cinema e sul cinema, ma della vita stessa e di ciò che siamo. In questo Jean Marie Maurice Schérer, detto anche Eric Rohmer, è stato il mio professore, anche se non l’ho mai conosciuto.

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