Quel furbacchione di Adam McKay
Per noi cresciuti a pane, western e Dottor Stranamore fa un po’sorridere il cancan mediatico suscitato da Don’t Look Up. D’altronde il film aderisce alla perfezione al contemporaneo esistenziale e tra i suoi meriti ha proprio questo. Certo se si desidera la profondità di discorso bisogna rivolgersi altrove ma è indubbio che l’ultima opera di Adam McKay sia un esercizio grottesco e molto intelligente da parte di un autore spumeggiante che maneggia il cinema come Lewis Hamilton fa con le palette del suo volante. Anche questa volta, quindi, McKay non si è smentito perché, pur non inventando nulla di nuovo nel confronto con la sua produzione precedente, riesce a divertire e a creare spettacolo. È ciò richiesto dal pubblico e da Hollywood. La furbizia a sostegno di una-relativa– mancanza di ispirazione. Si chiama professionalità.
L’uso dello stereotipo per spiegare l’uomo
La Cometa in rotta di collisione con la Terra, scoperta dall’attivista Jennifer Lawrence e dall’astrofisico Leonardo Di Caprio, è l’immenso corpo contundente che non solo provocherà l’apocalisse ma scoperchierà tutti i tic, le manie, i vizi e le pochissime virtù dell’intera umanità. Il problema è che McKay in questa corsa lunga sei mesi e qualche giorno per evitare la distruzione totale, è costretto ad affidarsi agli stereotipi, disinteressandosi, forse volutamente, di infilare il proprio bisturi nella psicologia di ognuno dei suoi numerosi protagonisti. Rischia quindi di offrire allo spettatore delle semplici macchiette che, ripetiamolo fino…alla apocalisse, divertono ma non sorprendono, risultando molto prevedibili. Dal(la) presidente(ssa) Usa Meryl Streep per giungere al profeta della green economy Mark Rylance, Don’t Look Up propone un campionario umano di cui sappiamo già tutto e di cui prevediamo, senza spremere le meningi, le azioni. È il limite del film. Con tutto il rispetto dovuto La Grande Scommessa–https://guidoschittone.com/la-grande-scommessa/– o Vice avevano ben altro spessore.
Un’allegra banda di disperati
L’allegra banda di disperati di Don’t Look Up viene usata da McKay come fragile pellicola di protezione da applicare su una visione del mondo in cui emerge la labilità di qualsiasi teoria. Siamo, per il regista,ma non solo, arrivati al punto di non ritorno dell’umanità. Inutile è guardare a ritroso, inutile diventa usare il raziocinio. Le macchiette ripetono allo sfinimento i loro tic, ne sono soggiogate, dominate. È un annebbiamento collettivo che non risparmia nessuno. In questo il film è molto potente ma non riesce a incidere perché non conduce a una chiara direzione analitica. Se si tratta di apologo ambientalista, per esempio, Don’t Look Up fallisce. Troppo leggeri sono sia Di Caprio sia Lawrence, bravissimi ma alle prese con una sceneggiatura delle loro parti molto debole, e troppo scontato è il finale per lasciare allo spettatore quella che a scuola si definiva la morale.
Un film creato per divertire con alcuni colpi di genio
Don’t Look Up in definitiva è un film creato ad arte e con arte per divertire e sbancare al box office. Su questo l’opera di McKay è inattaccabile. Il montaggio è la consueta arma vincente dell’autore, le interpretazioni fanno il resto con, parere personale, il quartetto composto da Streep-Rylance-Hill–Blanchet una spanna sopra tutti gli altri mentre per Di Caprio-Lawrence siamo talmente abituati alla loro grandezza e versatilità da non poter aggiungere altro a ciò che abbiamo scritto in precedenza. Piuttosto nel film ci sono alcuni colpi di genio: l’inserimento di Arianna Grande nella kermesse a sostegno della causa pro ambientalisti è uno dei momenti migliori di Don’t Look Up così come l’esibizione di tutti i vezzi della nostra demenziale contemporaneità che fanno della prima parte quella più riuscita e ispirata. Dopo, preso atto della stupidità umana, si ride per non piangere. Ed è forse quello che voleva trasmetterci Adam McKay.