FILM femminile e non femminista, Sofia è una di quelle opere recuperate in questo periodo di blocco forzato dal cinema teatro Orione di Bologna per tenere accesa la passione degli spettatori. È appunto nel non piegarsi alle logiche della tesi precostituita e della divisione in bianco-nero delle problematiche relative al rapporto tra istituzione- sia essa teocratica, familiare, ambientale- la sua maggiore qualità. Meritato quindi il premio per la migliore sceneggiatura nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes del 2018. La regista belga di origine marocchina Meryem Benm’Barek dirige con mano ferma una storia che solo in superficie sembra lineare: una ragazza della borghesia di Casablanca viene assalita dalle doglie durante un pranzo in famiglia e grazie all’aiuto della cugina andrà a partorire di nascosto una bambina. È lo spunto attraverso cui la regista cerca di penetrare nella complessa realtà del Marocco, nazione che a dispetto della propria geografia e della conseguente facilità di commistione culturale, non riesce a liberarsi dai pregiudizi dettati da arcaici concetti religiosi entrati anche nella costituzione. È così che Sofia diventa fotografia di un’intera società, sospesa tra ansia del contemporaneo e anacronistiche concezioni. Non è un tema nuovo, soprattutto se riferito alle complesse descrizioni delle numerose e differenti culture legate al mondo islamico. In Sofia, però, ciò che appare sullo schermo non ha mai il senso del definitivo. È un percorso in cui ogni tipo di scelta presa dall’istituzione << famiglia >> è decisa per celare il disonore, per cercare il compromesso, per arginare i rigidi dettami previsti da leggi, usi e costumi ingiusti.
MERYEM BENM’BAREK è abile nel mettere a confronto i personaggi del suo film. All’interno dello stesso nucleo familiare si fronteggiano coloro i quali hanno raggiunto uno status improntato alla modernità e chi invece appare ancora legato ai vecchi schemi. Ma è finzione pure questa perché l’obiettivo di tutti è comune ed è sempre riferibile a stendere un velo definitivo su ciò che viene considerato scandaloso. Il mezzo per riuscirci è il denaro, l’arma la posizione che si occupa in società, il tutto per mantenere quasi immutabile lo status quo della reputazione. Non c’è alcun compiacimento da parte della regista nel mostrarcelo. La sua camera segue i personaggi, ne scopre a poco a poco caratteri e contraddizioni. Il risultato è che i concetti del passato vengono perpetrati, i matrimoni non si basano sul sentimento ma sul puro interesse economico e sulla conseguente evoluzione gerarchica nella scala sociale. Il titolo non deve ingannare. Sofia è la partoriente ma la reale protagonista del film è sua cugina Lena che si veste al’ultima moda, che frequenta l’università di medicina, che è libera dai legacci dettati dalla religione. È Lena, quasi sia il medium scelto dalla regista, che ci guida nell’universo marocchino. È sempre lei a cercare di risolvere con pragmatismo i guai in cui si è cacciata la cugina e sono i suoi occhi << occidentali >> a osservare sbigottiti un mondo che non le appartiene. Sofia-Maha Alemi– è vittima impotente, almeno questo ci viene indicato fin quasi verso la conclusione del film quando, in modo geniale, Meryem Benm’Barek avrà la forza di ribaltare i ruoli di tutti quanti i suoi personaggi. Questa capacità di sorprendere è una delle chiavi che le sono valse il premio per la sceneggiatura nella sezione << minore >> ma non meno importante del festival francese di due anni fa.
IL RITRATTO è impietoso. Ho scritto che è un film femminile e non femminista perché la visione è talmente priva di pregiudizi che la regista non assolve per nulla le donne. Anzi le trasforma in maestre di cinismo assoluto nei confronti di un universo maschile privo di personalità. In Sofia gli uomini sono macchiette, non contano nulla, nella migliore delle ipotesi sono semplici portatori di denaro nelle casse familiari o individui disposti ad accettare il diktat della differenza sociale subendo ricatti. È un mondo senza amore, basato su puri calcoli economici e non sentimentali e a questo proposito è significativo il confronto tra Lena e la madre, la sempre brava Lubna Azabal. Ed è ciò che gli occhi della ragazza-una convincente Sarah Perles– continueranno a osservare nella variopinta coralità della scena conclusiva di un film molto interessante dove l’ipotetica rivincita femminile avrà il sapore amaro di un’infelicità futura.