Manta Ray, il perfetto amalgamarsi tra mondi paralleli dove il reale è ciò che non ti aspetti

Il cinema thailandese rappresenta spesso per gli spettatori occidentali un rompicapo. È infatti radicalmente diverso dai modelli proposti dalle più note cinematografie dell’estremo Oriente, Cina, Corea del Sud, Hong Kong, Giappone, Taipei, perché i suoi modelli molto spesso rimandano a leggende locali, ai racconti orali, a una religiosità esistenziale fluida, che rifugge la materia o l’idea stessa di questa. È cinema che non spiega il mistero. Lo mette in scena, rendendo complesso l’approccio razionale ed esaltando, come nel caso del bellissimo Manta Ray dell’esordiente Phuttiphong Aroonpheng, vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2018, la parte emotiva individuale. Una qualità, questa, in grado di convincere anche i più scettici e che inizia a essere un marchio di fabbrica di una cinematografia sdoganata dalla Palma d’Oro di Cannes 2010, Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasenthakul (la mia recensione qui http://guido.sgwebitaly.it/articoli/una-palma-dalla-travolgente-fascinazione/ ). A differenza di quel film Manta Ray, ha ritmo più sostenuto, meno profondità di pensiero, meno complicazioni ed è molto secco-quasi elementare- nel proprio canovaccio di partenza. L’autore infatti aveva ben presente una trama iniziale semplice che però ha modificato in corso d’opera, cercando di applicare un procedimento fantastico all’evoluzione del soggetto in grado di poter creare un vero e proprio mondo parallelo. Tecnicamente è come se ci si trovasse di fronte a due film in uno; nella realtà, e sta qui la grande intuizione registica, Aroonpheng crea un doppio compenetrante; lo amalgama a tal punto che la storia non può più fare a meno dell’elemento fantastico. L’una rimanda all’altro e viceversa.

Non a caso il film è stato girato nella regione thailandese che confina con il Myanmar-la Birmania- laddove avvenne l’esodo dell’etnia Rohingya nel tentativo di sfuggire al genocidio perpetrato a suo danno in Birmania. Quelle foreste rigogliose celano ancora oggi fosse comuni, corpi senza nome, vittime innocenti del dispotismo oltranzista nei confronti delle religioni. L’intenzione di Aroonpheng non è stata quella di fare un film di denuncia piuttosto di trarre spunto da quella tragedia per offrire il punto di vista dell’artista sul dramma dell’uomo. Ed ecco che un pescatore trova in quella foresta un uomo ferito, che non parla né parlerà mai più. Muto. Lo cura, lo porta a casa sua, lo accudisce, gli trova un nome, lo stesso di una popstar locale, ne diventa amico fino a quando non scompare. L’altro ne prenderà il posto, gli usurperà la vita stessa, la casa, il lavoro, gli affetti prima dell’improvvisa riapparizione del pescatore. Manta Ray quindi potrebbe apparire come una riflessione tutta orientale sulla classica figura del doppio ma su questa Aroonpheng innesca appunto l’elemento fantastico portandoci in un altro territorio. Il buio della foresta viene squarciato dall’improvviso illuminarsi di migliaia di pietre nelle notti di luna piena. Pietre che paiono creature al primo alito di vita, che nascono pulsando luce o che più semplicemente-ma l’autore non lo spiega e non lo vuole fare- sono il simbolo di quelle anime sepolte che possono emanare la propria luminescenza solo quando il buio, essendo l’unico riparo necessario, può essere violato. Tutto Manta Ray ruota attorno a questi mondi paralleli in cui gli elementi non sono solamente l’acqua del mare e la terra. La foresta stessa ne acquisisce il valore: è elemento a se stante, primordiale ed immutabile quasi che ad essere non luogo sia la nostra percezione del reale e non del fantastico.

Manta Ray procede così legando in perfetta armonia identità usurpate e ansia di libertà, simboleggiata appunto dalla grande manta che la leggenda di quelle parti vuole che si avvicini agli scogli nei giorni di vento e di pioggia. È film fluido come il mare, capace di trascinare gli spettatori in direzione di un orizzonte visivo ed emotivo prezioso e raro. Ci sono pochissime parole, lunghissime inquadrature che la scelta musicale-effettuata in sede di montaggio e non prima- riesce ad esaltare e intuizioni geniali- il ballo nella baracca tra pescatore e uomo ferito è fondamentale perché è da quella luce stroboscopica che poi partirà la fascinazione successiva- e un finale che ti lega sbalordito dalla sua potenza alla poltrona. Ed ha una dote rara: è molto più semplice da osservare piuttosto che descriverlo. Riprendendo una cosa scritta proprio a proposito del Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, mai come in questo modo di fare cinema diventano reali le analisi di Christian Metz e in parte di Jacques Lacan su fascinazione e identificazione speculare che il mezzo offre. Essere disposti ad esserne travolti: il segreto è questo e Aroonpheng, per la nostra gioia, lo ha capito.

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