È sempre pericoloso avvicinarsi al cinema e in letteratura a personaggi legati alla storia e che, in misura minore o maggiore, ne abbiano scritto pagine o appena qualche riga. C’è il rischio agiografico incombente o quello di una fredda biografia. Giorgio Diritti dopo tre film importanti, due riuscitissimi(Il Vento fa il suo giro– https://guidoschittone.com/il-vento-fa-il-suo-girosu-di-noi/–L’Uomo che verrà-http:///il-viaggio-di-giorgio-diritti-nella-terra-delluomo/) e un altro che a me affascinò ma ebbe poco successo tra i critici (Un Giorno devi andare–https://guidoschittone.com/le-mille-domande-di-un-giorno-devi-andare/) ha deciso quindi di affrontare di petto un personaggio mai del tutto approfondito come Antonio Ligabue, la cui dimensione umana appare ancora oggi misteriosa, nonostante il famoso sceneggiato televisivo con Flavio Bucci e i tanti testi scritti negli anni sul pittore svizzero-emiliano. Credo non sia un caso: Diritti fin dall’inizio della sua carriera ha posto alla base della propria cinematografia il discorso sulla diversità, intesa come fattore di disturbo una volta che questa va ad inserirsi in un contesto sociale dotato di regole codificate e in un certo senso assunte per omologazione. Antonio Ligabue, dunque, non poteva non affascinare l’autore del Il Vento Fa il Suo Giro perché il pittore visse e prosegue a esistere nella memoria collettiva come un perfetto irregolare, un escluso inserito ed adottato dalla comunità. La sua stessa pittura, in definitiva, non è catalogabile. Il regista, quindi, aveva di fronte una strada percorribile a doppio senso: da una parte Ligabue in quanto persona e artista; dall’altra la collettività con la sua accettazione o il suo rifiuto. Diritti ha però intrapreso un terzo cammino nella realizzazione del film.
Dipingo quindi sono
Per non rischiare la ripetizione dell’opera di debutto lascia sullo sfondo la riflessione sulla comunità, accennando soltanto al rapporto che questa ebbe con Ligabue e non addentrandosi in una disamina approfondita. Per alcuni questo sarebbe il limite di Volevo Nascondermi, a parer mio invece si tratta di una scelta per non sovraccaricare ciò che il regista e i suoi cosceneggiatori Tania Pedroni e Fredo Valla volevano porre al centro: l’uomo Ligabue che magicamente si armonizza con Ligabue artista e un discorso sull’arte capace grazie all’uomo e alla sua <<diversità>> di diventare materia. È la relazione quasi carnale tra Ligabue e la tela o la scultura che in Volevo Nascondermi domina in continuazione la scena. Gli incubi, le sofferenze, le esclusioni, la rabbia, la relazione con la natura, convergono in una persona sola, nel crepitìo dei pennelli usati quasi come arma, mezzi di offesa-difesa per esprimere ciò che le parole e le riflessioni rendono impossibile. Dipingo quindi sono ed ogni rifiuto di un quadro equivale alla negazione stessa dell’esistenza dell’uomo . Attraverso il pittore, Giorgio Diritti va oltre il personaggio stesso di Ligabue, crea un film sul significato dell’arte più che sul suo valore.
Il ritorno a un’Arcadia infantile
Il secondo aspetto che l’autore bolognese prende in considerazione è la carenza che contraddistingue la vita dell’artista: tutto nel Ligabue di Volevo Nascondermi viene scandito dalla mancanza di amore, dall’impossibilità di potere vivere una relazione normale a cui anela. Un amore puro, ideale che elegge Ligabue un tenero adolescente in cerca di un conforto che sappia di accettazione, di ritorno a un’arcadia infantile, di una madre che di fatto non conobbe mai, di una carezza protettiva, di un bacio, ideale di normalità per chi sa di non farne parte. Per realizzare ciò Diritti si affida anche alla esegetica televisiva riguardante il pittore, ricostruendo le stesse scene del documentario girato nel 1962 da Raffaele Andreassi per la Rai(quando la tv era qualcosa di serio) fruibile da chiunque su youtube.
Elio Germano da fuoriclasse
Volevo Nascondermi è un film importante, riuscito, dove Diritti non lesina nell’imporre la sua estetica cinematografica raffinata e rarefatta, addentrandosi in quella terra emiliana che lui così ben conosce, mettendone in luce persino le contraddizioni paesaggistiche, facendo calare il suo protagonista in una dimensione di isolamento e allo stesso tempo di perfetto amalgama con gli enormi spazi aperti e di chiusura claustrofobica soprattutto quando tratta della gioventù e dei primi anni emiliani del pittore. Ligabue come parte di un regno altro, un animale uomo in piena sintonia con la natura di cui conosce umori e sfumature. E a rafforzare la potenza del film giunge l’interpretazione di Elio Germano. Nella vita non ho mai provato troppa simpatia per i migliori o per coloro i quali passano per tali ma credo che a questo attore la cinematografia italiana e non solo dovrebbe rendere omaggio. Il suo Ligabue non solo appare come una copia in carta carbone di quello reale ma non è mai macchiettistico. È un continuo sciabordio di emozioni tenute sotto controllo e pronte all’occorrenza a esplodere sempre in modo misurato, come se Germano per calarsi nella parte abbia vissuto nella pelle di Ligabue stesso per mesi e mesi, studiandone andatura, caratteristiche fisiche, intuendone sentimenti, carpendogli alla fine l’anima nel bene e nel male, nelle piccole rivalse che la vita gli riservò e nelle carenze che ne determinarono il carattere. Torno a ripetere: con Diritti sono di parte fin dal suo esordio. Ho amato persino Un Giorno devi andare e questo Volevo Nascondermi non sfugge alla regola. Forse, per pignoleria e gusto individuale, avrei preferito un finale secco e meno edulcorato, con l’eliminazione della parte onirica, inutile appesantimento di ciò che gli spettatori avevano già compreso, ma questo non inficia l’importanza di un film che ha avuto la sfortuna di uscire proprio nei giorni del lockdown e a cui auguro un grande successo commerciale. Perché è destinato a durare. Come l’arte e gli artisti.