Verità nascoste in Anatolia

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ARRIVATO in sala nel periodo meno felice, distribuito in sole tredici città a distanza di oltre un anno dalla presentazione al festival di Cannes, quello del 2011, << C’era una volta in Anatolia>> è un’altra gemma creata dal suo autore, il turco Nuri Bilge Ceylan, artista a tutto tondo mai banale, superficiale, poco incline alle soluzioni semplici. Tempo fa, scrivendo del regista e della sua produzione su questo blog, avevo coniato un ossimoro per descriverne la poetica: Ceylan come uomo di <<dinamiche immobilità>>. Il film uscito la scorsa settimana conferma la tendenza di Ceylan che questa volta si avventura in una storia <<noir>> per interrogarsi e parlarci della sua Turchia. Osannato dalla critica, vincitore del premio speciale della Giuria a Cannes nel 2011, <<C’era una volta in Anatolia>> non è un film epidermico, che si assume a pelle. Una prima visione può lasciare interdetti per la sua durata, per qualche apparente appesantimento temporale che ridotto lo avrebbe reso quasi perfetto. Capisco quindi chi, uscendo dalla sala, non ha gridato al capolavoro, limitandosi a giudicarlo un buon film troppo lungo. Però ogni medaglia ha il proprio rovescio: bastano pochi istanti di riposo per andare a ritroso nella pellicola e accorgersi che dei suoi 157 minuti ci si ricorda tutto, dalle inquadrature, alle battute, dalle espressioni dei protagonisti, ai vari significati che si celano dietro apparenti no sense che solo verso la conclusione troveranno la motivazione. Non sappiamo a chi dare ragione: su Ceylan mi rendo conto di essere poco obiettivo, mi piace troppo, non mi delude, mi lascia sempre affascinato con la sensazione alla fine di una sua proiezione di avere percorso un viaggio nuovo nel quale stupore, curiosità e riflessione si mischiano in armonia. Dote rara nel cinema di questi anni, dove i ritmi frenetici spiazzano e disorientano spesso in modo artificiale e dove invece all’ andamento lento il più delle volte corrispondono noia e artificiale introspezione. Con Ceylan questo non accade e <<C’era una volta in Anatolia>> ne è la riprova.

LE PRIME immagini ci mostrano tre persone sotto la luce fioca di una catapecchia riprese da una finestra. Bevono, sono alticce, una di loro esce e va dal cane mentre il cielo si annuvola e presto pioverà, un’immagine cara al regista. Dopo i titoli di testa si è invece da tutt’altra parte. E’notte fonda nei pressi di una fontana in un paesaggio montagnoso che tanto ricorda quello innevato di <<Il piacere e l’amore>>. La magia fotografica del film è già prossima al suo zenit: il verde assume varie sfumature, in lontananza discendono da una strada sterrata tre automobili a fari illuminati. L’ultima ha un lampeggiante sul tetto. Arrivano alla fontana, si fermano e dai mezzi escono vari personaggi, qualche poliziotto e un uomo a mani legate che dovrebbe guidarli, mentre su un’altra automobile qualcuno è rimasto nell’abitacolo ed è in attesa. E’chiaro che si tratta di un delinquente che accompagna la polizia sul luogo di un presunto delitto del quale non sappiamo nulla e del quale verremo a conoscenza a poco a poco. Perché Ceylan non si cura di farci entrare nella storia utilizzando una schema o un genere. Tutto ruota attorno a un commissario, a un procuratore, al medico legale e alla piccola brigata che li accompagna: due autisti, due prigionieri, degli spalatori e un paio di militari comandati da un giovane ufficiale ossessionato dalle percorrenze e dalle competenze territoriali. I tre sui quali il regista si focalizza dicono e non dicono di loro stessi: il medico non parla quasi mai, ascolta e osserva. Il commissario tra una disquisizione sulla supremazia dello yogurth di bufala sui prodotti pastorizzati e un’arrabbiatura con il prigioniero che li conduce in luoghi dove poi regolarmente non ricorda di aver commesso il reato, ha di sicuro qualche problema in famiglia. Il procuratore obbliga spesso la carovana a fermarsi per urinare. Al medico confida di avere conosciuto in passato una donna che era stata in grado di prevedere il giorno esatto della propria morte. La prima ora e mezza del film segue questa avventura all’apparenza priva di nesso logico: le vetture si muovono nel paesaggio, tra colline impervie, stradine sterrate, buio pesto, aria di tempesta e vento alla ricerca del posto per eccellenza, quello dove è stato commesso il reato o dove è nascosto qualcosa. Siamo tra gente che ha memoria, ma la imprigiona dentro e mostra agli altri falsi indizi o mezze verità. Sarà l’arrivo nella casa di un sindaco di un piccolo villaggio sperduto ad anticipare ciò che accadrà nella parte successiva. In una cena scandita dal desiderio del primo cittadino di trovare una raccomandazione per risistemare il muro di cinta del cimitero e creare un obitorio all’ingresso, cadranno le prime maschere nel momento in cui la tempesta costringerà tutti quanti al lume di candela. Sono le scene stilisticamente più belle e affascinanti di un film fotografato in modo impeccabile e personale (Ceylan è anche fotografo di fama internazionale). Il crepitio che illumina e lascia in ombra è come denudasse ogni protagonista costretto ad osservare la magica apparizione della figlia del sindaco e ad acquisire la coscienza della propria verità. Da allora in poi tutto diventerà luce, apparirà un cadavere, scopriremo cosa si nascondeva dietro i silenzi del dottore e i racconti di commissario e procuratore. Fino alla conclusione, allegorica come sempre avviene con Ceylan, nella quale il dottore, ovvero l’alter ego del regista, il suo terzo occhio, dovrà tacere il particolare più importante emerso dall’autopsia dell’assassinato. Una scelta estrema ma necessaria per srotolare il grande nodo che <<incaprettava>>, come il morto ritrovato in un campo, ognuno dei protagonisti. E’ il <<C’era una volta>> che va abbandonato per una difficile rinascita. E’chiaro che questo è il film sottilmente più politico di Ceylan, quello in cui si avverte l’ossessione registica di parlare attraverso una storia della Turchia, delle sue contraddizioni, del suo rinchiudersi in sé stessa e nel volersi aprire a un’eventuale ingresso europeo.

VINCENTE è di sicuro l’impianto scenico. Il film è di rara bellezza esteriore. Non una cartolina, piuttosto una serie di quadri nei quali ogni luce nella notte- l’improvvisa apparizione del riflesso di un treno tra le colline è forse un omaggio a Ozu?- porta con sé un significato preciso, mai messo dal regista per compiacersi. Ma la sceneggiatura non è da meno: l’impianto drammatico sfrutta scale musicali nelle quali le battute ironiche e le risate stemperano a volte l’inutilità degli sforzi degli umani. Ci troviamo alle prese con situazioni assurde nelle quali Nuri Bilge Ceylan fa a pezzi con grande umanità e partecipazione i propri eroi e altre nelle quali la riflessione di un singolo coinvolge quella dello spettatore. Forse l’unico reale e concreto limite del film è la sua durata o meglio quella <<dinamica immobilità>> che  ha funzionato meglio nelle << Tre scimmie>> o in <<Uzak>>. Ma erano film molto diversi proprio come trama e come discorso, legati a questo da quel senso di incombente, di pressione sull’individuo sintetizzata sempre da un cielo gonfio di nuvole pronte a scaricare tempeste o a trattenerle, autentici segni distintivi del regista turco. Eppure i 157 minuti non inficiano nulla, basta fumare la prima sigaretta del dopo visione per ritornare lassù assieme ai piccoli eroi di Ceylan, ai loro segreti e dubbi, al loro apparente movimento inutile, figlio di una nazione che ancora non ha deciso quale strada intraprendere in via definitiva e che forse ha bisogno della fiducia degli altri.

E’AD ANDREA OCCHIPINTI e alla Parthenos che va dato il merito di aver distribuito il film. Poche copie ma sufficienti per consentire alla gente di vederlo. Senza di loro l’Italia non avrebbe potuto gustare il film premiato dalla Giuria a Cannes nel 2011. Scandaloso no? E come risposta, almeno a Bologna, sala da novanta posti strapiena in una domenica nella quale la gente era al mare o in piscina. Un pubblico eterogeneo, capace però di effettuare una selezione qualitativa a priori  tra i tre film proposti dallo stesso cinema. Segno che l’utenza italiana non è tutta acefala e omologata come molti credono. Ma questo è un altro ragionamento: mi limito a gridare lunga vita ai distributori intelligenti e alle sale che hanno il polso del proprio pubblico.

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