The Fabelmans: Spielberg parla di sé stesso attraverso il cinema ma l’operazione riesce a metà

Intuizioni dall’andamento lento

Omaggio al cinema o una seduta di autonalisi? Steven Spielberg con The Fabelmans cerca di fornire la risposta unendo le due questioni. Parla del proprio io attraverso la lente della cinepresa, ripercorrendo, come nelle migliori tradizioni, i momenti iniziali di una passione destinata a diventare non parte dell’esistenza ma vita stessa. Il mix riesce meno di quanto possa sembrare e anche se il film vincerà qualche o parecchi Oscar non può essere annoverato tra le sue opere migliori. Troppi, infatti, sono i cliché di riferimento, poche o nessuna le novità di questa auto rivisitazione. Dal regista che ha messo d’accordo critica e pubblico e che costituisce un punto fermo della storia del cinema ci si attendeva di più. The Fabelmans è pieno di intuizioni ma il ritmo è lento e non basta la magistrale interpretazione del cast, su tutti Michelle Williams, per definirlo capolavoro. Manca la costanza. Si passa da momenti di pura fascinazione ad altri ripetitivi, da improvvise genialità a cose del tutto scontate. Diverte, spesso fa riflettere ma le note dello spartito sono sempre quelle e alla lunga il film rischia di annoiare, cosa rara nella produzione di Spielberg.

Dalla folgorazione alla realtà

Il piccolo Spielberg- Sam Fabelmans riceve l’illuminazione dalla vista del Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B.DeMille. La scena è quella in cui Lyle Bettger si lancia con la sua auto contro un treno con le immancabili conseguenze. È l’esegesi della passione. Da quel momento il giovane Fabelmans cercherà di ricreare con un trenino elettrico la stessa dinamica e con la complicità della madre riuscirà a effettuare la sua prima ripresa. Spielberg inizia il proprio racconto da questo ricordo, una delle parti migliori di The Fabelmans, ma poi si perde in una fin troppo lunga descrizione dei rapporti familiari, in cui la voglia di fare cinema è la costante capace di amalgare e separare, di scontrarsi e riunificarsi, di mettere a confronto con il passare del tempo le ambizioni dell’uno con i desideri degli altri. I film che il giovane Sam gira con le sorelle, i genitori, gli amici di scuola diventan fame di fascinazione e di manipolazione del reale fino a quando i fotogrammi non riveleranno ciò che l’occhio nudo non aveva visto.

Il cinema che mostra la vita

È la magia del mezzo. Basta una moviola, una seduta di montaggio amatoriale per captare ciò che restava celato. Oggi un paio di frame, ieri la scansione lenta della pellicola, immagine dopo immagine, per arrivare all’ orizzonte alto o basso di cui parla John Ford-strepitoso il cameo di David Lynch- che è alla base del miracolo di questa arte. La riflessione di Spielberg è potente: il cinema non spiega la vita ma la mostra. All’interno della finzione spunta sempre un elemento di realtà e questo accadrà in una delle scene migliori, quella che determinerà il cambiamento sia dei rapporti famigliari sia la maturazione di Sam Fabelmans. È l’arte che impone il sacrificio del privato, l’accettazione delle perdite, in nome di un sogno da conquistare. Ma è anche un’arma manipolatrice, che rende eroi piccoli uomini e chi ha visto il film può comprendere le scene a cui mi riferisco.

L’arcadia infelice del giovane Steven

The Fabelmans cerca di unire i due aspetti: la formazione individuale di un ragazzino ebreo sorretta e portata a compimento dal cinema. Spielberg crea questa perfetta adesione osservando con vena malinconica il proprio passato, fotografando un’ arcadia fatta da bellissimi trenini elettrici, piccole cineprese, i picnic, la felice famiglia americana degli Anni’50 ma instillando fin da subito qualche dubbio su questa apparenza. A poco a poco il mondo perfetto si sgretolerà e sarà appunto il cinema a mostrare la falla che esisteva ma ognuno fingeva di ignorare. Il problema è che tutto ciò diventa alla lunga fin troppo evidente, che volli, e volli sempre, e fortissimamente volli deborda rischiando di omologare The Fabelmans a opere già viste, minandone la profondità. È il suo limite più evidente.

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