Snowpiercer, viaggio nell’indole umana senza retorica

snowpiercer

IN UN FUTURO più prossimo che venturo- la scena si svolge nel 2031 ma la catastrofe è iniziata il 1 luglio 2014- la glaciazione farà scomparire gli umani dal pianeta. I pochi superstiti viaggeranno attorno alla Terra su un treno, Snowpiercer, dove un gruppo di individui vive in coda ai convogli e un altro in testa. Naturalmente i primi sopravvivono in condizioni disumane mentre i secondi hanno il controllo totale del treno, il potere di vita e di morte, lo scettro del comando. È fatale che lo stato non durerà in eterno a dispetto di quanto pensano i residenti nei vagoni nobili. Ed è abbastanza scontato che come ogni rivoluzione che si rispetti, il risultato della rivolta dei poveracci in coda al treno non sarà quello sperato. Di trame così si cibano cinema e narrativa quando sono rivolti a un pubblico che preferisce dividere i buoni dai cattivi, il bianco dal nero. Non ci sarebbe quindi nulla di innovativo in Snowpiercer rispetto ad altre cose passate sugli schermi. Nemmeno il fatto che l’idea originale si sia palesata al regista sudcoreano Bong Joon-Ho leggendo una serie francese di fumetti, ideata dal duo Rochette-Legrand dal titolo Le Transperceneige. Eppure ci andrei cauto a sostenere che questo sia un film dallo svolgimento prevedibile. Perché non è così. Snowpiercer è soprattutto un film bello e riuscito. Davvero una grande…bellezza.

BONG JOON-HO, classe 1969, è venerato da chi lo conosce. In patria, la Corea del Sud, è campione d’incassi, il suo The Host ha sbaragliato il box office. Mother è stato un successo. Lo splendido Memories of Murder, sorta di Zodiac sudcoerano, riflessione amara e disincantata sul passato e il presente della nazione, vinse nel 2003 il premio Holden al festival di Torino ma venne distribuito solo in dvd – http://guido.sgwebitaly.it/?p=110– e stessa sorte accadde anche con gli altri menzionati. In Italia è chiaro, dove il fiuto dei distributori è inversamente proporzionale al gusto per la qualità. Snowpiercer ora porta l’autore orientale al cinema inteso anche come luogo fisico ed è un bene perché potrebbe essere l’occasione, come avvenuto con Steve McQueen, per mettere in circolazione ufficiale nei prossimi mesi le opere viste solo nei festival specialistici o nelle segrete delle stanze casalinghe. Il regista lo meriterebbe: ha sempre avuto un respiro più internazionale, più aperto al mondo rispetto ad alcuni coevi e connazionali. Non per niente il progetto Snowpiercer nasce come grande coproduzione, con tanto di cosceneggiatore occidentale, Kelly Masterson, un cast mondiale e multiculturale, Chris Evans, Ed Harris, John Hurt, Tilda Swinton, Jamie Bell, Octavia Spencer, Song Jang-ho, Go Ah, sung tanto per citare i più noti, le riprese girate nella repubblica Ceca e un sacco di soldi investiti come mai nella storia del cinema sudcoerano. Ben spesi.

SONO AMMASSATI come in un lager gli umani che compongono i convogli di coda dello Snowpiercer. Hanno le unghie nere, gli abiti strappati; sono sporchi, affamati, si nutrono solo di gelatine proteiche. I loro vagoni sono futuribili carri bestiame dove non filtra mai la luce. Le porte sono sigillate, non si passa, non si procede nei territori dei privilegiati. Le incursioni della polizia avvengono per la conta a file dei reietti o per sottrarre qualche bimbo alle madri o qualche marito che sappia suonare il violino. I ribelli vengono puniti, mutilati. In testa, invece, dove il treno inizia, tutto è differente; i vagoni ci mostrano un mondo replica di quello che non esiste più. È l’ordine perfetto ideato da mister Wilford che non è solo il milionario che ha creato il treno ma è anche e soprattutto l’eminenza grigia che nessuno vede e frequenta, che vive isolato nel suo eremo in testa alla motrice, colui che comanda: gli uni e gli altri. Wilford ha portato il suo ideale di società all’interno del treno. La sua è la freddezza pragmatica di chi ha conoscenza distorta della storia, di chi applica la logica dei numeri per creare un nucleo umano dove gli ultimi servono alla sopravvivenza dei primi e dove a volte le ribellioni che partono dal basso e mietono vittime da entrambe le parti sono necessarie al mantenimento dello status quo. E quindi vanno non solo accettate ma anche organizzate. È ciò che accade nel film, è l’elemento a sorpresa che quelli dei vagoni di coda non avevano previsto . Ma ci sarà un ulteriore stravolgimento attraverso colpi di scena a ripetizione , in parte intuibili, in parte no e che non paiono interessare più di tanto il regista coreano. Bong Joon-Ho conosce il cinema d’azione, sa cosa si attendono gli spettatori. Non li tradisce ma porta elementi nuovi in una storia banale solo in superficie.

GIOCA infatti nell’annullamento progressivo degli opposti. Sembra di assistere a una storia in bianco e nero. La giustizia da una parte, il sopruso dall’altra. Non è così.L’autore non cade nella trappola: segue il proprio finto eroe, un convincente Chris Evans rendendolo umano tra gli umani; in preda ai dubbi che non creano la mitizzazione e legato alle debolezze dell’individuo che si trova al cospetto di un ruolo e una funzione sociale che non aveva previsto per se stesso. Bong Joon-Ho si chiede e ci domanda quale sia la funzione della rivolta, quali risultati possa fornire quando si cerca di sovvertire e ribaltare una situazione in apparenza statica. Il treno Snowpiercer taglia il globo terrestre attraverso un giro che dura dodici mesi. Il suo è un moto perpetuo che manterrà in vita la razza. Il suo locomotore infrange muri di ghiaccio, attraversa metropoli ibernate, autentici monumenti funebri a una civiltà scomparsa e che Wilford, Ed Harris, ha ricreato dentro i vagoni con contraddizioni e violenza comprese. Gran parte del carico umano non ha esperienze del mondo. Conosce solo i convogli, vive all’interno di una ricostruzione artificiale e claustrofobica di ciò che gli anziani hanno conosciuto. Ci si droga con una sorta di plastilina che serve anche per preparare esplosivi, ci si ciba di gelatine, almeno nei vagoni di coda, o di piatti prelibati in quelli di testa. Ma è una società che non conosce il gusto della terra, che vive di doppioni come i ricchi o di cecità e buio come i disperati. A questo proposito una delle scene meglio riuscite è quella nella quale l’inuk Namgoon Minsu, interpretato da Song Kang-Ho– icona sia del regista sia di Park Chan-wook qui in veste di coproduttore- fa assaggiare un pugno di terra alla giovane figlia. È il gusto della vita e il desiderio di una vita autentica che l’uomo cerca di offrire alla ragazza. Il suo personaggio è l’unico che crede in qualcosa di diverso, che vuole rischiare. Che non si accontenta della verità impartita dalle stanze del potere. Che mette in dubbio l’informazione. Sarà proprio vero che da quel treno nessuno potrà mai uscire perché la glaciazione rende impossibile l’esistenza al di fuori dei convogli? LA GRANDEZZA della visione e dell’analisi sugli scopi della rivoluzione da parte Bong Joon-Ho sta proprio in questo: lo spirito rivoluzionario in Snowpiercer non è dettato dall’ansia della libertà. Ma dal desiderio del potere. Così nessuno dei disperati che vediamo sullo schermo può dirsi immune dal proprio peccato originale: l’essere umano. L’estetica del film è bellezza: quando un coreano illuminato e dal gran gusto si confronta con le attese del pubblico difficilmente sbaglia bersaglio. Scenografia e fotografia contano e fanno la differenza. Ogni stanza-pardon convoglio- equivale a un mondo nuovo da scoprire; le luci cambiano di scena in scena. Il buio incombe negli ultimi vagoni e man mano che avanziamo coi rivoltosi attraversiamo luoghi sempre più illuminati. Nella visione ballardiana della società – la borghesia e il ceto medio annullati, restano in vita solo i potenti e i diseredati- proposta all’interno di Snowpiercer le finestre appartengono solo a coloro i quali vivono nel benessere. Con lo stesso stupore di chi è stato ridotto al buio spalanchiamo le labbra alla vista della minacciosa bellezza del mondo esterno, del ghiaccio e della neve che tutto ricoprono, dove il silenzio è turbato solo dal turbinio del vento e dal sibilo del treno che vaga senza soluzione di continuità. La fotografia di Kyung-Pyo Hong è caldissima, precisa, vira sui dettagli, cela e fa solo immaginare le conseguenze delle scene più cruente, cosa rara nel cinema asiatico dove gli opposti – raffinatezza e atrocità- vanno spesso a braccetto. E poi c’è l’ironia tipica del regista che nel personaggio di Tilda Swinton ha l’epicentro.

SNOWPIERCER è un film importante, che cerca di superare il genere nel quale è inserito. Ha ritmo, è veloce, non stanca. Sfrutta un montaggio da videoclip ma senza compiacimento.E ci lascia con un punto di domanda in un finale che si presta a più letture. Una speranzosa e scontata; un’altra più complessa. Sgorga dopo l’accenno di lacrima indotta dall’ultima scena, mentre piedi affondano nella neve e la natura sembra offrirci per la prima volta l’armonia. Non ci è dato da sapere cosa sarà il domani, se qualcosa cambierà, se si si potrà sopravvivere ancora nel mondo. Senza ansia di potere, senza pretesa di controllo, ma adeguandoci ad esso, in pace. Con purezza, la stessa che sembrano avere i superstiti dell’ultima scena. Bong Joon-Ho ci congeda regalandoci commozione e angoscia. Chissà se il resto sarà vita. E quale.

Condividi!