Bong Joon-ho tra tutti i grandi autori proposti dal cinema sudcoreano è quello che è riuscito fin dalle prime opere a donare una visione universale, passando con facilità da un genere all’altro, non fossilizzandosi. Scoperto al festival del cinema di Torino del 2003 con lo strepitoso << noir >> Memories of Murder, vincitore del Premio Holden per la sceneggiatura-http://guido.sgwebitaly.it/articoli/lo-scandalo-di-una-distribuzione-mancata/- confermatosi via via con alcune chicche come Host o Snowpiercer –http://guido.sgwebitaly.it/articoli/snowpiercer-viaggio-nellindole-umana-senza-retorica/– ha trionfato all’unanimità a Cannes 2019 con questo Parasite che di fatto gli permette di raggiungere il momentaneo culmine di una carriera fatta più di alti che di bassi. È un vertice cinematografico conquistato con la genialità della messa in scena, con la raffinatezza della riflessione, con la capacità che è propria di molti autori sudcoreani di utilizzare il grottesco per spiegare la realtà. La differenza tra Bong Joon-ho ed altri illustri connazionali, si pensi a Kim Ki Duk o a Park Chan wook è che il nostro ha l’innata capacità di mischiare leggerezza e profondità, divertimento e violenza con un tocco molto personale e di trasvestire spesso i propri film di modo che possano risultare accessibili all’universalità delle persone. Parasite, non a caso, ha incassato moltissimo negli Usa e lo stesso sta accindendosi a fare in tutta Europa. Perché non può non piacere.
Case e scale, odori e sottosuolo: Parasite è un film esteriormente verticale che va dal basso verso l’alto e viceversa senza soluzione di continuità. Non è solo una questione di appartenenza sociale, di divisione tra ricco e povero, piuttosto la riproposizione in termini contemporanei non futuristici in forma di commedia nera di ciò che già in Snowpiercer era stato trattato in modo magistrale da Bong Joon-ho. In quel film fantascientifico un treno correva in un mondo ghiacciato trasportando i superstiti di un’umanità divisa in modo orizzontale: in fondo al convoglio i vagoni dei disperati, all’inizio i detentori del comando. La rivolta conseguente avrebbe smascherato gli uni e gli altri non come ci si sarebbe aspettato: entrambe la parti lottavano esclusivamente per il potere, per detenere il comando, per ribaltare i ruoli. In Parasite il concetto viene rafforzato e messo al passo con il mondo contemporaneo: se esiste lotta di classe questa non è fatta in nome di un’ideale egualitario, bensì di semplice sostituzione. Ma a differenza di Snowpiercer questo avviene in modo verticale, perché l’umanità agisce e si muove proprio come i parassiti. Si insinua con lentezza ma relativa progressione nel mondo di chi sta più in alto, senza accorgersi che quel sottosuolo da cui si proviene custodisce altri parassiti, la cui esistenza dipende drammaticamente da chi sta sopra loro. È su questa idea che Bong Joon-ho costruisce un film grottesco, divertente, crudele, bellissimo, capace di essere scambiato per buona parte della sua durata in commedia brillante per poi virare, sempre mantenendo il gusto del divertissiment non banale e non scontato, in una precisa analisi sull’uomo, delle sue ansie, della sua lotta per la sopravvivenza.
La famiglia Kim con vari strategemmi entra al servizio della famiglia Park: i primi vivono in un paio di stanze sotto il livello della strada di un quartiere povero di Seoul; i secondi in una splendida villa in collina, chiaramente al culmine di una salita. I Kim hanno la forza che sa di genialità che solo chi ha poco o nulla da perdere può permettersi; i Park vivono alle prese con un mondo dove tutto sembra essere bello, facile, tranquillo, senza scossoni. Così i servi a poco a poco si insinuano nella quotidianità dei padroni. Ne determinano le scelte, ne invadono consapevolmente il territorio, ne gestiscono l’educazione dei figli, ne sfruttano l’apparente gentilezza. Bong Joon-ho usa la propria ironia per costruire un perfetto congegno ad orologeria che causerà la naturale deflagrazione proprio nel momento in cui il film sembra avere definitivamente intrapreso la strada della commedia irriverente. Per almeno un’ora e mezza Parasite pare essere la rivisitazione in chiave moderna dallo spirito sudcoreano di un’opera teatrale di Carlo Goldoni. Dopo tutto cambia: quei ruoli che sembravano essere ben definiti, i servi grezzi dalla spiccata intelligenza e i padroni supini nella loro agiatezza, trovano un brusco ribaltamento, frutto di ciò che non può fare parte di un piano, che non può essere programmato né immaginato. Il colpo di scena metterà soprattutto i primi al cospetto di altri parassiti, delle loro esigenze, di una realtà che nemmeno il redde rationem avrà la possibilità di scalfire. È una fortissima critica sociale, è vero ma c’è molto di più in questo film che non verte solo sulla separazione stereotipata tra ricchi e poveri.
Il metodo di Bong Joon-ho è quello di avvicinare i personaggi, farli incontrare, interagire e poi distruggerli. Nessuno escluso. È un grand guignol etico, fatto di comunicazione solo all’interno dei rispettivi nuclei familiari. Il resto è un tentativo di lanciare sos esistenziali, perché quel sotttosuolo che pulsa sotto il mondo percepibile racchiude isolamento,allo stesso tempo una condanna- vengono spediti messaggi e lettere attraverso l’alfabeto morse che nessuno, tranne un bimbo, è in grado di comprendere- e senso di protezione, quasi fuga dalle responsabilità individuali. È probabile che attraverso queste allegorie Bong Joon-ho abbia voluto sottolineare la situazione geopolitica delle due Coree, su cui si basa una delle scene più divertenti film.
Parasite è un film che convince ed affascina per ciò che riesce a esprimere anche a livello scenico: l’autore mediante l’immagine spiega le gabbie che imprigionano fatalmente i suoi protagonisti. Le case possono essere belle o bruttissime: le prime offrono panorami di giardini rigogliosi, una pace assoluta. Ma tutto ciò è filtrato da ampie vetrate: se si oltrepassano ci sarà pioggia e la resa dei conti. Le seconde sono destinate a essere inondate d’acqua in una delle scene più forti del film che sembra ricordare quel piccolo e strano capolavoro di Shinya Tsukamoto dal titolo Haze–http://guido.sgwebitaly.it/articoli/tsukamoto-con-il-tocco-in-piu/-. Il film è feroce, non fa sconti. La bravura di Bong Joon-ho è di trattare la dicotomia sociale usando l’imprevisto, sottolineando le sfumature. Gli odori stessi diventano protagonisti sottili e infidi per sottolineare le differenze tra chi si fronteggia: l’incipit di Parasite vede gli spioncini delle misere stanze in cui vivono i Kim aprirsi per essere invasi dalla polvere degli insetticidi spruzzati in strada. Di fresco profuma la casa dei Park. L’olezzo maleodorante emanato dai Kim sarà il primo segnale di un’ incrinatura nei rapporti tra servitù e padroni.
La Palma d’Oro di Cannes non offre alcun tipo di speranza che possa liberare l’umanità dalla sua condizione. A ben guardare il contenitore è il luogo da cui i protagonisti di Parasite non riescono né possono fuggire. Chi ci prova sarà votato al fallimento. Non a caso le scene in << esterno >> si contano sulle punta delle dita: il film avviene tutto dentro la casa, l’automobile, le pareti in plexiglass di un ufficio. Chi rompe queste << protezioni >> è un bimbo che gioca agli indiani ma che non si avventura mai oltre lo spazio fisico del giardino della villa e quando lo fa si chiude all’interno della propria tenda. La scelta di uscire da parte della famiglia Kim è solo per fuga, per ritornare, discendendo strade e scale quasi per entrare in un girone infernale, da dove si era partiti. Agli uomini di Bong Joon-ho non è dato altro che osservare, analizzare, immaginare di essere nei panni altrui. Sopravvivere, sognando di essere altro, in questo presente dal sottosuolo.