Il mondo di Scorsese attraverso gli occhi di Hugo

hugo-c.jpegPRIMA di recarsi ad assistere alla proiezione di <<Hugo Cabret>> sarebbe consigliabile leggere l’ottimo volume di Richard Schickel << Martin Scorsese, conversazioni su di me e tutto il resto>>, che Bompiani Overlook ha fatto uscire nel tardo autunno del 2011. Del film che probabilmente farà incetta di Oscar non c’è nulla ma c’è molto, se non tutto del proprio autore. E’per questo che lo consigliamo: in quella lunga intervista-confessione scritta in modo brioso senza inutili intellettualismi e quindi molto accessibile, il proiettile che viene esploso e va a colpire il lettore è soprattutto uno:l’amore per il cinema. Una dichiarazione che cammina sui binari dei ricordi di Scorsese, della realtà sociale nella quale è cresciuto e sui motivi per i quali i film fin da piccolo, anche se inconsciamente, erano l’essenza espressiva del bambino Marty. Scorsese immaginava storie, le visualizzava come se fossero autentici story board:<< Mi ricordo che disegnavo queste storie già quando ero a Corona e avevo cinque o sei anni. Era il mio cinema. E poi a Manhattan, negli anni Cinquanta, a otto o nove anni. Vedevo dei telefilm e poi cercavo di fare la mia versione a disegni. Poi li coloravo con gli acquarelli. Ne avevo un mucchio. Un giorno mio padre mi vide che ci giocavo e dovetti  nasconderli. Non capiva che cosa stessi facendo, e pensò che me ne stessi troppo per conto mio. A un certo punto penso che dovetti vergognarmi e li buttai via>>. Questi schizzi uscivano dalle matite del piccolo Marty nello stesso formato cinematografico dell’epoca , l’1,33. Vietato condividerli con alcuno. Nel libro Scorsese ricorda che l’unica persona che aveva accesso a questo segreto era un amico << che era molto tenero e un po’ l’intellettuale del gruppo>> aggiungendo che mostrandoli in sequenza l’amico lo apostrofava dicendogli che << qua non si muove niente>> e lui di rimando << Ti sbagli. Si muovono da un’immagine all’altra >>. E l’altro ancora:<<Ma i disegni restano fissi>> e Scorsese rispondeva:<< Perché devi badare a questi dettagli?>>. Questo lungo prologo per dire che in <<Hugo Cabret>> sotto la favola biografica-perché si parla della vita di Georges Miélès, il primo regista sperimentatore- tratta dal libro illustrato di Brian Selznick (che fa un piccolo cameo) c’è proprio Martin Scorsese e la sua dichiarazione d’amore per l’arte che lo ha reso famoso, ben poco ricco, ma ancora in grado di gridare al mondo intero che senza il cinema lui stesso non potrebbe vivere. Cinema come avventura dello spirito e dell’occhio, come fascinazione definitiva, come lungo viaggio alla scoperta in definitiva di ciò che siamo. E’ innegabile, come ha sottolineato qualcuno, che <<Hugo Cabret>> sia un film ruffiano, capace di pizzicare le corde di chiunque ma credo che questo ne mostri una qualità aggiuntiva. Scorsese parla di cinema facendolo, sperimentando un film ideato e creato nel miglior  3D fin qui visto, riproponendo scene che il suo doppio, ovvero l’esegeta Scorsese, continua a studiare, a restaurare: quelle del cinema di una volta, del cinema delle origini, per riappropriarsi della funzione primigenia del cinema che ancora doveva trasformarsi in settima arte. L’operazione è geniale: per parlarci di ciò che è stato quel mondo, l’autore si affida all’avanguardia tecnologica. Ne coglie l’essenza, ce la consegna. Pone un ponte tra un oggi che è già domani e il passato remoto, ci porta a viaggiare con gli occhi e l’anima. Ricordo una frase detta in un’intervista da un grande sceneggiatore e poi regista della scuderia di Steven Spielberg, John Milius :<<Voglio raccontare storie come fanno i vecchi ai bambini attorno al fuoco>>. Scorsese lo fa. Come se si fosse fermato un attimo per guardarsi alle spalle, a ciò che è stato, per capire meglio il proprio oggi.

In <<Hugo Cabret>> noi diventiamo all’improvviso bambini, la storia scorre e il fuoco è il tridimensionale che ci fa entrare direttamente nel film, a seguire trepidanti, commossi, divertiti, speranzosi l’odissea del piccolo orfano Hugo che vive  all’interno delle segrete della stazione di Montparnasse occupandosi di gestire gli orologi e soprattutto quel misterioso automa del quale si è perduta la chiave a forma di cuore che innescherebbe il suo meccanismo. Una figura metallica partorita da chi non si sa, metafora stessa di ciò che va oltre la realtà ma che essendo creata dall’umano nel tempo ha una propria funzione. Seguiremo le peripezie di Hugo, il suo incontro con il venditore di giocattoli, della sua figlia adottiva, fino alla scoperta della vera natura di quel signore in apparenza burbero ma in realtà disilluso, che racchiude un segreto: è stato uno dei più grandi registi di un’epoca già passata, è Georges Méliès. E’il tempo che scandisce il film, sono i giganteschi meccanismi che determinano sospensioni. Non siamo nel passato né nel futuro, siamo nella zona franca, quella del cinema che riporta unicamente a se stesso. Così l’eterno bambino Scorsese incatena lo spettatore, proiettandogli visioni antiche del bianco e nero delle origini e ricreandole attraverso il soggetto e la trama, come la memorabile scena di <<Safety Last>> con Harold Lloyd del 1923 che Hugo vivrà in prima persona verso il finale o la ricostruzione di vari film di Méliès stesso come <<Il viaggio sulla luna>>

Per alcuni il limite di <<Hugo Cabret>> è che sia un film programmatico, quasi a tesi. E’ vero la tesi di Scorsese è una carta scoperta: l’autore  sembra dirci <<amo il cinema oltre me stesso e questo è il mio omaggio all’arte che mi ha permesso di essere ciò che sono>>. Ma nessuno potrà mai contestarne l’intensità e a questo proposito ci soccorre, ancora una volta, il libro-intervista di Richard Schickel a pagina 452 :<< L’intensità per me, è sapere che vale la pena fare i film in un certo modo, e sapere che là fuori c’è qualcuno a cui tutto ciò può dire qualcosa>>. Ecco <<Hugo Cabret>> colpisce per la perfezione filmica e scenografica e per l’intensità del suo atto d’amore. Fortissima, epidermica, che non si limita a uno sterile esercizio esegetico o allo sciorinare l’enorme cultura cinematografica di Scorsese. E’un’iniezione il cui liquido scorre nelle vene di chi osserva e lo travolge in modo automatico, senza la presunzione di voler insegnare qualcosa, di salire in cattedra proponendo una semplice prova di stile. L’approccio è pragmatico, solido, per certi versi persino molto semplice e lineare come la favola <<veritiera>> dalla quale <<Hugo Cabret>> è tratto. Scorsese non si perde mai per strada, mantiene la concentrazione , ci riporta al mondo come lo sognavamo da bambini, dove tutto era possibile. A differenza di un altro regista che sarebbe stato capacissimo di trattare <<Hugo Cabret>>, Tim Burton, non effettua voli pindarici perché ha altra mano, altro stile, altra esperienza, altre ascendenze, altri modelli. E’ Scorsese che si riappropria dell’età dell’innocenza e ce la regala a modo suo attraverso le magistrali interpretazioni di due ragazzini destinati a diventare importanti. Hugo è Asa Butterfield, già protagonista di <<Il bambino con il pigiama a righe>>, Isabelle la bellissima Chloe Grace Moretz che a soli quattordici anni ha già attraversato molti generi da <<Amittyville Horror>> a <<Dirty Sexy Money>>. I due si confrontano con il sempre perfetto Ben Kingsley-Georges Méliès- e sua moglie Helen McCrory. Sacha Baron Cohen è l’ispettore di polizia, mentre piccole parti vanno a Jude Law e Christopher Lee. Cameo infine per Scorsese stesso e Johnny Depp, co-produttore del film e suonatore di chitarra nell’orchestra del bar della stazione.  Tutti impegnati in questo ritorno alle origini, quello che sta portando lo studioso Martin Scorsese a riscoprire, restaurare, studiare, come se il passato rappresenti la base di ciò che sarà il suo cinema del futuro. << Cercare di conservare quella storia e quei film che mi hanno comunque cambiato la vita, indipendentemente dal fatto che poi sono diventato regista. Che possano continuare a cambiare la vita di qualcuno, in futuro, lo trovo esaltante>>. In <<Hugo Cabret>> tutto questo c’è.

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