I sogni non abitano più qui

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ECCOLO di nuovo il <<vecchio>> Clint Eastwood sempre più giovane e bravo nello scrivere un’altra pagina importante della propria storia cinematografica e della nostra. John Edgar Hoover è stato fino all’avvento di Richard Nixon alla presidenza degli Usa l’eminenza grigia e l’uomo più potente del paese dei sogni. Un uomo contradditorio, così come contradditoria è stata la sua azione, condensata in un misto di nazionalismo ad oltranza, di metodi poco cristallini al servizio della Patria, un uomo che aveva compreso come combattere i nemici mettendosi allo stesso loro livello. Hoover come metafora del fallimento dell’American Dream, di un eroe dal <<cuore nero>>, mistificatore, geniale, nelle proprie manipolazione di fatti e eventi, anticipatore di metodi che poi sarebbero diventati patrimonio delle sezioni investigative di tutto il mondo; un uomo capace di intuire le potenzialità dei media e per questo creatore di propagande per nulla occulte spalmate sui mezzi allora in voga, dal cinema alla televisione, dai quotidiani ai fumetti. Uno spione mai spiato, l’opposto del personaggio di Gene Hackman in << La conversazione>> di Coppola. John Edgar Hoover, quindi, come simbolo dell’oligarchia del potere, l’uomo invisibile che sta dietro ai grandi e ai piccoli eventi, assetato della smania di controllare. Ma il <<J.Edgar>> di Eastwood è ben diverso da quello descritto per esempio con disprezzo da un grandissimo scrittore-forse ex- come James Ellroy che Hoover lo ha pennellato anche senza farne il protagonista principe in molti dei suoi romanzi migliori. No Eastwood ha il pregio di incamminarsi nell’analisi di un uomo che negli Usa resta un’icona, non importa se nel bene o nel male, assumendo in modo molto fermo e pacato il proprio ruolo: il terzo occhio della camera che segue l’inesorabile ascesa di una volta in più strepitoso Leonardo Di Caprio è quello del regista. Che in apparenza non giudica, non commenta, fa solo muovere le pedine sullo scacchiere di questo affresco senza cadere nel tranello  della sceneggiatura  preconcetta. Può essere un eroe negativo l’Hoover di Eastwood ma anche positivo. Dipende dai punti di vista. Di sicuro della cinematografia dell’autore americano, il suo <<J.Edgar>> mantiene una caratteristica: è un uomo solitario che lotta contro sé stesso. Per questo, crediamo, Eastwood ha utilizzato la <<presunta>> omosessualità di Hoover quasi come artifizio per parlare d’altro, per passare, senza la minima esitazione, dal privato al pubblico e ritorno. Ma tutto il resto del cinema del maestro qui viene riletto in modo sorprendente, che può anche non piacere o non entusiasmare come in altri lavori recenti ma che merita parecchie riflessioni.

<<J EDGAR>> infatti spezza una linea di pensiero; ne propone una nuova, molto disillusa. Come se si trattasse di un’accettazione.  Innanzitutto la lotta di Hoover contro il mondo è solo ed esclusivamente di potere. In genere, invece, i personaggi di Eastwood sono assetati di giustizia. Lottano per affermare un’ideale di equità. Il suo <<J.Edgar>> usa invece questo per imporsi e per imporre una propria ed esclusiva visione del mondo, manicheista, dove c’è bianco, il suo e c’è nero, degli altri. E’un uomo shakespeariano che il regista insegue nella propria ascesa, cercando persino di scavarne un ritratto psicologico che comunque mai scade alla stregua di una giustificazione. Isolato, vittima di un chiaro complesso d’Edipo con la madre, l’immarcescibile Julie Dench, rifiutato dall’unica donna che in gioventù lo interessava, Naomi Watts, che poi diventerà la sua segretaria personale e fedele compagna professionale di una vita, coinvolto dalla  passione omosessuale con il proprio assistente da lui promosso direttore associato dell’Fbi Clive Tolson, qui interpretato dal promettente Armie Hammer, l’Hoover eastwoodiano si pone nella storia degli Usa come autentico spartiacque tra un prima e un dopo. E’colui che fa finire i sogni, che li combatte, che è ossessionato dall’ordine a tutti i costi. Non è servo dello Stato, ne è il respiro meno udibile ma il più importante. Vede il marcio dappertutto, ne è ossessionato ma è un modo per allontanare  i propri incubi personali, per porre un velo tremendo sul non guardarsi dentro. Sarà solo nel finale di un film che può apparire sulle prime algido, quasi cronachistico nel proprio svolgimento, che ci sarà il redde rationem. Tolson, usato da Eastwood come voce della coscienza,  metterà di fronte Edgar alla finzione recitata tutta una vita, alle sue miserie umane. Così il corpo goffo e sfigurato di Hoover morto e nudo ci regala l’immagine della caducità, il vuoto che sta  dietro ad ogni ambizione e all’ansia di dominio.

EASTWOOD non si interroga in questo film su bene e male. Non guarda e non ci descrive le vittime di Hoover. Non è colpevolista, non è innocentista. Non vuole cadere nel tranello del film politico e di analisi storica. Ma dipinge un affresco molto più complesso di quanto potrebbe sembrare a prima vista sulla contraddizione dell’ansia di potere in nome di un bene comune. Pace, ordine, giustizia, equità muovono le labbra di Hoover ma trascendono in breve nei loro opposti. Se l’ossessione di Brandon in <<Shame>> di McQueen diventa il parossismo del sesso, quella di <<J.Edgar>> si trasforma in parossismo del potere per giustificare la propria personalità <<colma di mancanze>>. Il ricorso a un  trucco volutamente poco sofisticato per invecchiare gli attori, deformarne i volti e i corpi, ci mostra alla perfezione la dissoluzione che il regista vuole significare. Questa volta, a differenza di alcuni dei suoi ultimi film, Eastwood non regala speranze. Chi virtualmente farà fuori <<J.Edgar>>, Richard Nixon, sarà esattamente come lui se non peggio. Una bandiera a mezz’asta sventola sul sogno americano. Ma l’uomo Eastwood, in un finale struggente, dimostra di essere sempre lo stesso, consegnando alla storia la fine di un personaggio oscuro e allo spettatore la carezza di una melanconica pietà. Quella che si deve quando all’uomo non resta altro che il proprio essere stato.

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