Rush: due campioni per raccontare il tempo che cambia

E’POSSIBILE realizzare un film sul motorismo senza parlare delle solite cose, senza crollare nelle solite sceneggiature semplicistiche, didascaliche, a metà tra il fumetto e il documentario come tante, troppe volte ci è capitato di osservare. Per riuscirci, però, si ha la necessità di avere in mano una buona idea, di sviscerarla, approfondirla, realizzarla avendo come obiettivo primo non una serie di fotografie di quel mondo ma una visione complessiva degli uomini e dell’epoca della quale si vuole trattare. In pochi possono farcela. Ma se un ottimo regista dalle grandi potenzialità spesso non espresse compiutamente, Ron Howard e uno dei migliori sceneggiatori al mondo, Peter Morgan si uniscono, allora sì che il risultato si vede. Rush diventa quindi un film che va oltre a ciò che l’aspetto promozionale sussurra, furbescamente, allo spettatore o all’appassionato puro di Formula 1 e di corse automobilistiche in generale. Questi sono gli specchietti per le allodole, per attirare gente al botteghino, per creare l’attesa.Rush in realtà è la suonata a morte di un’epoca e il saluto a un’altra. E’un po’come accadeva con Gli spietati di Clint Eastwood una riflessione sul tempo che non ritorna, sugli Anni’70 come porte scorrevoli tra un passato di eccessi, di puro istinto, di intuizioni geniali e a volte autodistruttive e un futuro più pragmatico, meno romantico, meno artistico se vogliamo. Per farlo Howard&Morgan eleggono come propri beniamini i due maggiori esponenti della Formula 1 del quadriennio 1973-1977, James Hunt e Niki Lauda. Li studiano, li analizzano, li tratteggiano. Il primo l’ultimo dei romantici; una vita di eccessi. Nel bene e nel male. Molto sesso, un po’di droga, alcool, donne a volontà e le corse come puro divertimento, come sfida quasi fine a se stessa. Il duellare con la morte per sentirsi vivi fino in fondo. Il secondo, portatore di nuove istanze. Il rischio calcolato, l’attenzione ai minimi dettagli, il prototipo perfetto del << pilota che verrà>>, l’erede evoluto di Jackie Stewart non tanto sulla pura tecnica quanto sulla impostazione di carriera.

Howard&Morgan fanno partire la loro storia dallo schieramento di partenza del Gran Premio di Germania del 1 agosto 1976. Ci mostrano i rivali, vanno a ritroso nelle loro vite, nelle loro carriere-con qualche imprecisione-, per poi tornare a quel drammatico giorno, all’incidente di Lauda, alla sua ostinata volontà di rientrare in pista dopo appena tre corse, al Gran Premio di Monza e al suo gran rifiuto di proseguire il Gran Premio del Giappone che avrebbe incoronato Hunt campione del mondo dopo una indimenticabile stagione proprio per il < umano che si portò appresso. I film potrebbe essere pura cronaca e pura esibizione di corse e di duelli. Invece -e per fortuna aggiungiamo- è racconto, allegoria, metafora in cui le figure di Hunt e di Lauda procedono in parallelo, divise all’inizio per trasformarsi nei due volti della stessa medaglia e, alla fine, in un’unica voce, quella del rispetto e del confronto, della lealtà, della commistione di due caratteri in apparenza opposti che procedono alla ricerca dell’identico obiettivo seguendo itinerari differenti. Come se l’uno avesse bisogno dell’altro per poter giustificare l’essere stesso nel mondo.

La storia di un anno vissuto pericolosamente sfrutta la cronaca per farsene beffa. Ad autore e regista non interessa tanto il contorno. A seguirlo ci pensano le riprese, gli obiettivi ma sono i due uomini a essere centrali così come le loro visioni di come si dovrebbe vivere. Il mondo del cinema non è nuovo a incursioni in quello dei motori: Clarence Brown con il suo Indianapolis, Howard Hawks con Linea Rossa 7000, John Frankenheimer con il rivoluzionario, per ripresa e montaggio, Grand Prix, fino a Steve McQueen con La 24 ore di Le Mans tanto per citare i più illustri e i meglio riusciti. Eppure tutti questi possedevano un limite: o parlavano di corse per esprimere il gesto tecnico, quindi a rischio di pura descrizione e con soggetti fragili quanto scontati o le corse erano soltanto contenitori di altro. In Rush invece l’automobilismo è centrale: è la scelta dei protagonisti,è il modo che hanno per esprimere l’esistenza. L’assenza di moralismo, di giudizio, da parte degli autori è un’altra freccia nell’arco di una storia che cresce ed esplode in tutta la propria forza nella seconda parte che è di gran lunga più importante della prima, più descrittiva, di avvicinamento.Molte sono le scene che si ricorderanno di Rush: molto forte, perfetta nella tecnica, quella della pioggia che bagna i caschi prima del via del Gran Premio del Giappone del 1976. E’epica allo stato puro, è leggenda su un evento che la mia generazione ha vissuto per davvero così. E poco importa che la sceneggiatura ogni tanto si prenda qualche libertà dal fatto, dalla realtà. Non è compito di chi fa cinema e fiction raccontare con esattezza il tutto. Così si può perdonare a Howard&Morgan di avere solo accennato al dramma umano di James Hunt dal momento del ritiro dalle corse alla morte, a quel divorzio miliardario che fu alla base del suo progressivo perdersi. Perché tra i due eroi di Rush a essere sconfitto dalla vita fu proprio il britannico, qui considerato l’ultimo dei classici, dei romantici.

Perfetti per fisicità, somiglianza all’originale sono i due interpreti Chris Hemsworth e Daniel Bruehl e degnissime spalle le rispettive << compagne >> Olivia Wide e Alexandra Maria Lara mentre Pier Francesco Favino è un Clay Regazzoni meno guascone e più silenzioso di quanto fosse nella realtà forse per dovere di sceneggiatura.Rush che si sia appassionati di motori oppure no è un grande film, uno dei migliori tra quelli che circolano in sala in questo periodo e dimostra ancora una volta il grande talento di Howard nel fissare un’epoca e di capirne i personaggi simbolo. Impossibile e delittuoso, quindi, catalogarlo e relegarlo a film di genere. Da uno spunto sportivo Ron Howard realizza cinema universale, quello in cui l’uomo e il suo camminare nella storia sono centrali.Quello che preferiamo.

Voto:7/10

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