Realismo delicato senza buonismo

simple-life.jpgA SIMPLE LIFE è una piccola gemma nella scarsa offerta di film interessanti di questo periodo che segue la consegna degli Oscar e precede le produzioni che verranno proiettate al festival di Cannes. Non è un film di facile digeribilità. Non per la trama, assai semplice e nemmeno per le soluzioni registiche proposte quanto per una dilatazione temporale che ne appesantisce la forza. Ma siamo in pieno cinema orientale, quello che si affida al realismo puro più che alla iperbole. Nulla che riporti alla dimensione onirica, nulla che vada oltre ciò che si vede. Questo per avvertire gli amanti di ciò che sta avvenendo nel sud est asiatico. Scordatevi Kim Ki Duck, Wong Kar Wai, i giapponesi alla Kitano -coloro che adoro-e preparatevi a una visione nuda dello stato delle cose. Con un merito particolare: l’assenza di buonismo e di volontà da parte della regista Ann Hui di essere ruffiana con gli spettatori. O prendere o lasciare. Non ci sono strade differenti. Se si accetta la concezione cinematografica dell’autore cinese- ma di fatto vissuto a Hong Kong-  A Simple Life non deluderà per mille motivi. Il primo è legato alla delicatezza della rappresentazione. Non era semplice descrivere senza allontanarsi dalla realtà, la decadenza  di una persona che dopo trent’anni di servizio in una famiglia viene colpita da infarto e decide di rifugiarsi in un ospizio per anziani. Né era facile riuscire a restare credibili nell’intrecciare lo splendido rapporto tra questa domestica fedele e uno dei ragazzi che ha provveduto a crescere in quella casa, diventato un ricco e affermato produttore cinematografico. Si correva il rischio di rifugiarsi nel buonismo ad ogni costo o nel voler mettere di fronte agli osservatori una storiellina di buoni sentimenti. Ma non è così: ciò che Hui vuole sottolineare nel proprio film è quel concetto elementare ma di difficile attuazione grazie al quale il bene richiama bene. La fedele domestica non verrà mai abbandonata dall’ormai non più giovane produttore e in lui troverà la conferma di non aver speso l’esistenza invano. Perché il legame tra i due va oltre la semplice relazione serva-padrone. Esiste in A Simple Life– riferita proprio alla vita trascorsa da Ah Tao, interpretata dalla vincitrice della Coppa Volpi veneziana Deanie Ip- il reciproco osservarsi di due solitudini. Quella della donna che ha votato sé stessa alla famiglia nella quale ha lavorato e quella del produttore, l’unico di casa a essere rimasto fedele a Hong Kong mentre tutti gli altri vivono negli Usa. Di fatto l’una ha bisogno dell’altro. Non per una richiesta pratica ma per scelta automatica da parte delle rispettive morali.

MA C’E’ dell’altro, non solo il legame che si trasforma di fatto in uno di sangue. La riconoscenza avviene da parte di tutti i membri della famiglia ed ognuno di loro, per quel che possono offrire, sarà protagonista nell’assicurare a Ah Tao il calore che le spetta. Perché non si tratta di strappare una persona alla povertà nel momento dell’invecchiamento o alla pura solitudine ma farla sentire parte integrante del nucleo nel quale è vissuta. Il tutto raccontato con nessun fronzolo, in modo molto essenziale, misurato. Il film è vincente soprattutto nel proporci le scene all’interno dell’ospizio nel quale Ah Tao decide di andare a vivere dopo il proprio attacco cardiaco. E’un ingresso devastante per lo spettatore. Non nuovo sia chiaro ma di indubbia presa perché ci pone di fronte al regno dei dimenticati, dei senza famiglia, degli abbandonati, dei piccoli trucchi, delle meschinità, dei piccoli egoismi di chi ormai si è dichiarato fuori dal mondo e attende la propria fine. La figura della domestica si trasforma anche nel simbolo stesso della condizione degli anziani in una città, Hong Kong, tornata nelle mani della Cina, orgogliosa della propria identità ancora indipendente e che guarda con sospetto a ciò che accade in quella parte del mondo. Poche, sapienti e ironiche battute sul cantonese e il mandarino, sugli interessi applicati dalle banche, sulle feste animate da spirito di artificiosa generosità umana ci mostrano una forma di neocapitalismo arrembante dai quali i protagonisti di A Simple Life paiono prendere le distanze. Come se il nucleo più nascosto del film assumesse appunto la storia di un legame in ogni caso familiare per ergerlo a metafora di ciò che nessuno dovrebbe mai permettersi di annullare: la ferma e ferrea fedeltà alle proprie radici morali nonostante un mondo che sta cambiando.

A SIMPLE LIFE non si affida a eroi negativi. Ogni personaggio secondario porta con sé qualcosa di logicamente buono, dietro ogni sguardo c’è una carenza, una storia. Ci sono molte altre <<vite semplici>> che la regista ci fa intuire attraverso piccoli accenni mai recitati. Un oggetto, una parvenza di ricordo, una non risposta con lo sguardo perso nel vuoto e la voglia di non mollare. Nell’ospizio in cui alcuni pagano la retta di tasca propria e altri, più poveri, si affidano ai sussidi statali, il campionario umano, fiaccato nel fisico e nella psiche, si aggrappa disperatamente alla vita per aspettare la morte. Guardando con un pizzico di invidia al dolce sorriso di Ah Tao in attesa della visita del suo figlioccio. Sono le armi di <<A Simple Life>>. La mano piena di grazia della regista e la magnifica interpretazione di Deanie Ip e Andy Lau riescono solo in parte a lenire l’eccesso di durata del film che, lo ripetiamo, ha il merito di non indugiare mai sulla lacrima a comando mantenendo  una ottimale secchezza di scrittura: è il prezzo da pagare assieme alla riflessione sugli anni e sull’età per chi deciderà di andarlo a vedere. 

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