Philomena, una bella storia senza pathos

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CI AVEVA GIÀ PENSATO Peter Mullan con il bellissimo << Magdalene>> a parlare dei soprusi e delle condizioni drammatiche nelle quali vivevano le giovani orfane o le figlie reiette nei conventi irlandesi del secondo dopoguerra. Forse, conoscendo già il problema, è per questo che non ho amato molto Philomena di Stephen Frears, premio per la miglior sceneggiatura in una edizione mediocre della mostra veneziana, e in ottima posizione sul fronte degli incassi cinematografici dell’ultimo mese. Nessuno mette in dubbio la forza dei cinema di Frears– anche se rimpiangiamo i tempi …eroici di << My beatiful laundrette >> o de << Le relazioni pericolose >> – come nessuno osa mettere in discussione la straordinaria interpretazione di Judi Dench e la solida recita di tutto il cast. Eppure questo è un film che per chi è abituato ad andare al cinema non lascia troppe tracce. E mi stupiscono l’esaltazione critica, gli osanna per un’opera che resta nei binari del politicamente corretto, del compitino svolto da un grandissimo professionista della macchina da presa dal quale lo spettatore si attenderebbe il colpo di genio. Invece Frears resta fin troppo invischiato nel soggetto originale di Martin Sixsmith, autore del libro dal quale il film è tratto. Che il regista britannico abbia svolto un lavoro su commissione è noto: Frears si adopera nel trovare un punto d’equilibrio perfetto tra la visione << laica >> della vita dello stesso Sixsmith, interpretato e molto bene dal cosceneggiatore Steve Coogan e quella comunque cattolica della vittima del sopruso, Philomena-Judi Dench. Certo i fatti non si possono modificare a proprio piacimento, ma mi sarei atteso da un regista << importante >> e << superiore >> meno normalità.

LA STORIA in apparenza è semplice: una ex infermiera, Philomena, vive da cinquant’anni senza sapere nulla del figlio che le suore del convento nel quale era rinchiusa in gioventù avevano dato in adozione. A darle un aiuto, dapprima con scetticismo e poi con partecipazione, è un giornalista inglese, ridotto alla disoccupazione dopo essere stato coinvolto in uno scandalo governativo sotto il gabinetto Blair, Martin Sixsmith appunto. La loro è una strana coppia. Diversissima per cultura, origine sociale. Lei è una fanatica dei romanzetti rosa del Reader’s Digest, lui sogna di scrivere un saggio sulla storia della Russia. Lei ha vissuto tutta la gioventù sotto la schiavitù delle suore, lui ha studiato a Oxford. La ricerca del figlio perduto e soprattutto la scoperta dei soprusi e delle condizioni drammatiche nelle quali vivevano le ragazze in convento e il muro di omertà custodito dall’istituzione cattolica porteranno a un’unione di intenti totale. Ma non è questo il punto vincente del film e della sceneggiatura. Credo anzi sia il suo limite, perché costringe Stephen Frears al rispetto assoluto della trama, che appare meno scontata grazie a dialoghi spumeggianti, recitati da due attori encomiabili, e alla tradizionale professionalità di chi lavora ad altissimo livello qualitativo. Senza questo saremmo in presenza di un film che non va oltre i binari della sufficienza, del compitino ben svolto.

DOVE INVECE FREARS è straordinario è nel disegno che va oltre il racconto. Perché, lasciata da parte la commozione- molto controllata a dire la verità- è interessante come il regista giochi molto sulle differenze dei mattatori. Entrambi sono prigionieri di una perdita. Philomena ha vissuto monca tutta una vita, divisa tra il ricordo delle terribili sevizie psicologiche alle quali era sottoposta in convento, il senso del peccato sessuale commesso, la conseguente espiazione, sublimata dalla perdita del figlio dato in adozione. Dall’altra parte c’è Sixsmith, anch’esso sconfitto. Il brillante, popolare, ex giornalista televisivo, al centro di uno scandalo, ridotto al nulla da fare, allontanato dal proprio ambiente che attraverso la storia di Philomena cerca un riscatto anche sociale. La sua espiazione è proprio quella di aiutare Philomena nell’indagine, di scuotere la sensibilità cattolica della donna, di mostrarle le brutture del sistema. Così i due procedono in un lungo viaggio nel quale la ricerca del figlio diventa l’occasione per fare incontrare due ottiche esistenziali all’opposto, il << do ut des >> reciproco che non è soltanto quello del quale parla il personaggio di Sixsmith nel corso del film. Philomena e il giornalista diventano vasi comunicanti di sensibilità ed è nella capacità che entrambi avranno nel limare i propri punti di vista a fare di quest’opera qualcosa che supera la banalità della trama.

SOLO UN GRANDE regista poteva riuscire nell’impresa e Frears non sbaglia, perché ha da insegnare al mondo il proprio mestiere. Eppure nell’ambito della sua cinematografia che spazia dalle piccole grandi cose degli inizi, ai continui cambiamenti di genere, << Philomena >> resta un’opera che vista nella propria totalità non appartiene alle prove migliori. Il film, infatti, è da ricordare per le interpretazioni di Dench e di Coogan:senza di loro arriverebbe a una striminzita sufficienza. Perché a fare la differenza in un film non sono solo gli attori. E il fatto che io sia tra i pochissimi che non lo ha incensato non sposta di un millimetro il giudizio personale.Che non è legge sia chiaro.
Voto 6,5/10

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