Non è MarÍas non è Dürematt: si chiama Javidi e Melbourne è un grande film

SARÀ contento Javier MarÍas nel vedere quanto il fatto scatenante di tutto ciò che poi accadrà in << Melbourne >> del debuttante regista iraniano Nima Javidi sia assimilabile a quello che fa da spunto al suo romanzo capolavoro << Domani nella battaglia pensa a me >>. Nel libro una donna muore mentre giace con l’amante. Qui a morire è invece una neonata casualmente affidata da una improvvisata baby sitter a una giovane coppia in procinto di partire da Teheran alla volta dell’Australia. In entrambi i casi da un episodio casuale del quale si è incolpevoli testimoni e indiretti protagonisti, si dipana una trama fatta da sensi di colpa, domande, indecisioni, timori. Le similitudini tra opera letteraria e cinematografica si concludono qui perché in realtà prendono poi strade e contenuti diversissimi. Nel miglior romanzo europeo contemporaneo la riflessione di MarÍas è tutta sui morti, sul loro odore, sul senso inconscio di colpa di chi è rimasto vivo, sulla conseguente ed esasperata ricerca ai limiti dell’indagine di ciò che il morto ha lasciato a chi gli è sopravvissuto per meglio scoprire noi stessi e l’assurdità dell’esistenza. In << Melbourne >> Nima Javidi percorre un’altra strada, costruendo un dramma da camera tutto girato all’interno di un appartamento nel quale marito e moglie vedono sgretolarsi scena dopo scena ogni certezza esistenziale. E lo fa scrivendo benissimo una sceneggiatura molto forte che cresce a dismisura fino a circondare di apnea, angoscia, senso psicologico di claustrofobia gli spettatori. Come il Polanski di << Rosemary’s baby >> senza il diabolico di mezzo o come il Dürematt de La Promessa con la perdita progressiva di senso logico alle azioni individuali e l’ingresso collettivo in un caos che alla fine si rivelerà beffardamente risolutore della vicenda. È un film potente, magistrale, dove a scandire i ragionamenti e gli atti dei due protagonisti è la paura dalla quale deriva il ricorso alla menzogna e a fatti che ribaltano fino alla conclusione quest’ultima e la vita stessa della coppia.
COME CAMBIEREBBE il rapporto tra noi e il mondo se ci accadesse un evento del genere? Se all’improvviso, mentre prepariamo i bagagli e aspettiamo il padrone di casa per consegnargli le chiavi di casa, scoprissimo che la bimba a noi affidata è morta nel sonno? Javidi ipotizza tre stati uno conseguente all’altro: lo stupore e la prima logica azione. Ovvero avvertire un’ambulanza. Un secondo stato: nascondere la notizia per non essere incolpati ingiustamente. Un terzo: cercare il modo di fuggire dalla situazione. Da un dato oggettivo e reale, una morte con la quale noi non c’entriamo per nulla, il regista iraniano disegna uno splendido ritratto dell’individuo incapace di assumersi le proprie responsabilità. Scava quindi nel subconscio della sua coppia, ne porta a galla le contraddizioni , la perdita finale di ogni sicurezza, riducendo il legame a una complicità che si basa sulla menzogna condivisa, che dall’accadimento in poi diventerà l’autentico cordone ombelicale tra i due. Certo, << Melbourne >>, essendo film iraniano, può essere visto dagli occidentali anche come grottesca e tragica allegoria di un popolo che pur agognando a un obiettivo di libertà assoluta – la scelta di trasferirsi in Australia non è casuale- è costretto sempre a fare i conti con le proprie radici, alla consapevolezza di essere considerato presunto colpevole a prescindere e per questo obbligato a mentire e a modificare la realtà per riuscire a trovare brandelli di spazi individuali. È questa una lettura, però che mi appare troppo semplicistica perché nel film di Javidi più che questa ansia c’è invece la descrizione di un paese in cui la modernità, rappresentata dai telefonini che squillano in continuazione o da skype che è una forma di comunicazione costante o dagli accenni ai parcheggi selvaggi e al traffico, ben si muove all’interno dell’immagine, cupa e minacciosa, che viene offerta al mondo intero. Non credo sia questo il senso ultimo di << Melbourne >> così come non era in << Una separazione >> di Farhadi-, film del quale Javidi sfrutta il protagonista, Peyman Moaadi. Piuttosto mi sembra interessante l’accenno a Dürematt e alla scelta finale in apparenza folle, irrazionale, persino assurda del marito- che chiaramente non svelo- che consentirà alla coppia di raggiungere il proprio obiettivo. Ma a quale prezzo?

IL DISCORSO di Nima Javidi verte sull’uomo più che sull’Iran. Ed è per questo che l’autore preferisce concentrarsi sulla propria coppia piuttosto che sui personaggi che di volta in volta bussano alla porta dell’appartamento e ci entrano. Si tratta di stereotipi usati per affievolire o innalzare la tensione. Strumenti scenici e di scrittura che non vengono approfonditi perché il loro utilizzo, anche psicologico, deve essere limitato per non creare eccessive distrazioni allo spettatore e per ribadire la centralità di marito e moglie nella storia. Tutto il resto è una tensione che cresce fino a << strozzare >> positivamente chi osserva e lasciarlo attonito, sbigottito dentro l’incubo che i bravissimi Peyman Moaadi e Negar Javaherian riescono a trasmetterci. Sotto forma di thriller psicologico, quindi, questo regista debuttante, una delle poche rivelazioni dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, offre un film da non perdere. Come scrissi già a suo tempo a proposito delle splendide opere di Farhadi il cinema iraniano è universale, moderno, di grande classe e qualità. Profondo. Produce perle che gli appassionati non possono perdere. << Melbourne >> è una di queste.

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