Nel gelido ossario dell’America vera

images-4.jpegCUPO, AUTENTICO, basato sulla forza di sceneggiatura, riprese e recitazione <<Un gelido inverno>> – nell’originale << Winter’s Bone>> è uno dei quei film che perdere è detestabile. Crea assuefazione, emana profumo di perfezione per nulla laccata e nemmeno ruffiana. Debra Granik, alla seconda regia  non è riuscita soltanto a convincere i giurati nei vari festival, vedasi Sundance e soprattutto Torino– del quale ci fidiamo di più-  per acchiappare premi importanti. Vince anche nei confronti del pubblico che resta in sala ben oltre i titoli di coda immalinconendosi nel sapere che in pochi secondi dovrà rimpiombare sotto il vento freddo e teso di questi ultimi giorni di febbraio. Si parlerà parecchio di questo film nel corso dei prossimi mesi, non solo per la candidatura all’Oscar come migliore attrice protagonista della meravigliosa Jennifer Lawrence- ennesimo esempio della completezza degli attori americani- quanto perché  << Un gelido inverno>> si presta a molte considerazioni, a varie letture che vanno al di là di una trama che avrebbe la base per trasformarsi in un rompicapo e che invece Granik srotola con la semplicità di una madre con il filo di lana.Siamo infatti al confine del noir con Ree Dolly costretta ad accudire i fratelli più piccoli e una madre ridotta a un vegetale in assenza del padre, un piccolo spacciatore uscito di prigione e scomparso dopo avere dato in pegno la povera bicocca e qualche ettaro di bosco dove la famiglia vive. E’il nulla dell’esistenza rurale del Missouri, della sua inospitalità, della miseria più nera, dove in molti cercano di aiutare la ragazza portandole qualcosa per sfamare le bocche dei Dolly ma in pochi, forse nessuno, mettono in gioco la propria vita per darle realmente ciò di cui ha bisogno: la certezza della fine del padre. Dove è Jessop Dolly, perché è scomparso, perché non si presenta al processo, perché ha lasciato alle spalle la famiglia? Forse è morto, forse no. In questa assenza materiale più che fisica, Ree percorre il proprio viaggio scontrandosi con l’omertosa violenza di chi sa ma non vuole parlare. E’una ragazza senza innocenza, diventata già grande a dispetto dei suoi diciassette anni, una dura<< indurita>> per necessità a confrontarsi con gli altri. Il suo percorso la porterà a scoperchiare menzogne, diffidenza, a essere più forte dei minuscoli clan familiari che dominano il ventre celato degli Usa. Alla fine l’avrà vinta ma solo per tenere in piedi l’unico valore che lassù, tra i monti del Missouri, vale qualcosa: il legame di sangue. E’un’eroina, Ree dagli occhi dolci, capace di rinunciare a tutto e di vivere in stato di necessità per dare linfa al propulsore senza il quale crollerebbero le impalcature e la sua giovane vita diventerebbe dispersione degli affetti, flusso interrotto, divisione. Lee è il motore e il carburante, è una vera Dolly, come dice lei, una che non molla a nessun costo.Già in queste poche righe di trama si comprende che <<Un gelido inverno>> sia un film molto particolare, capace di condensare molto dei generi a seconda delle lenti di ingrandimento che lo spettatore utilizza. C’è innanzitutto l’America più profonda come raramente si vede. Il Missouri  viene mostrato senza alcuna concessione alla sua intrinseca bellezza. E’una terra inospitale, chiusa in se stessa, composta da baracche di disperati e sbandati, dove tra una caccia al cervo e la disoccupazione, si annida l’illegalità dei piccoli spacciatori o raffinatori di droga, la prepotenza di chi può permettersi di acquistare bestiame. E’strepitosa Granik nel mostrarci tutto questo con uno stile da documentarista, dove l’immagine e i colori quasi mai luminosi racchiudono la storia per dirci della durezza e del cuore nero degli abitanti. E’secco il suo stile e centra il bersaglio in modo molto vario: fa un film che è anche documento <<sociale>> senza necessità di troppe parole, disegna alla perfezione alcuni spaccati affidandosi solo all’occhio della cinepresapenso resterà nella storia la scena del mercato del bestiame, autentico documento di quanto l’America rurale sia legata alla tradizione e possa sembrare quasi anacronistica- o ci riporta all’improvviso a sentire l’eco di Twin Peaks– la scena nella quale lo sceriffo ferma di notte il pick up con lo zio Teardrop e Lee– o infine a non dimenticarsi della lezione di Sean Penn de <<La promessa>> con improvvise pause dove a parlare non sono i protagonisti ma ciò che è oltre loro. Personalmente nella regia di Debra Granik ho avvertito molte suggestioni e molti riferimenti di grande qualità ed è un punto di forza del suo film.Tratto dall’omonimo romanzo, pubblicato in Italia da Fanucci, di Daniel Wondrell– che non ho letto- <<Un gelido inverno>> ha una sceneggiatura solida. Il concetto di <<noir>> qui viene sviluppato seguendo la lezione di Jim Thompson non tanto per quanto riguarda la protagonista ma per chi le scorre accanto. L’America della Granik è un posto senza qualità, senza eroi, dove l’unica cultura da coltivare è quella primordiale della sopravvivenza. Tutti, tranne Ree e i suoi fratellini- non una richiesta, non un lamento, già sopravviventi ben lontani dallo stereotipo dei bimbi capricciosi e allo stesso tempo dal buonismo dei bisognosi- sono chiusi in un mondo che non ha nulla, dove la regola è non sgarrare dall’uso e costume, dove si cammina su un filo sottile pervaso dal mostruoso che c’è in ognuno di noi. La determinazione di Ree, la sua accettazione di una vita senza sogni, creeranno un sisma, faranno ondeggiare le fondamenta. Le ossa di <<Winter’s Bone>> come colonna vertebrale di una società:fratturate, segate. Nella scena finale, all’apparenza conciliante, un vecchio banjo spunta all’aria aperta. E’il segno della tradizione, è forse anche l’emblema di un mondo che non cambierà: Lee ha vinto la sua guerra, ha ottenuto il proprio scopo. Ma resterà perché quello è il suo mondo, l’unico del quale conosce le regole e in fin dei conti crescerà come tutti quelli che la circondano. Di questo ritratto amaro e sentito Jennifer Lawrence è la mattatrice: dolcissima, intensa, conquista lo spettatore al primo sguardo, anche quando pela le patate o insegna ai fratelli a mirare agli scoiattoli. La sua prova recitativa è talmente naturale, vera, pura, da prevedere una carriera da star, non per bellezza ma per capacità tecniche. Lo si era già notato nel poco felice debutto alla regia di Guillermo Arriaga <<The burning plain>>, grazie al quale,  la Lawrence ad appena diciotto anni, aveva conquistato la Coppa Mastroianni alla Mostra di Venezia del 2008. Qui nella veste di protagonista si supera: la sua candidatura all’Oscar è strameritata. In ogni caso tutto il cast lavora che è un piacere, ad iniziare dai due bimbi per giungere a John Hawkes con il suo volto rock alla Frank Zappa –non per niente suona musica con i King Straggler- che interpreta l’allucinato ma generoso Teardrop.

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