La Casa di Jack: il cinema che non si rassegna alla mediocrità

Preceduto dalle contestazioni di Cannes, dalle immancabili polemiche e divisioni, La Casa di Jack- The House that Jack Built- di Lars von Trier è in realtà il classico film che traccia una netta linea di confine tra l’opera che sebbene non perfetta sprigiona la potenza della qualità e le tante produzioni uniformi e omologate-vedasi le molte proposte della notte degli Oscar- che affollano le sale cinematografiche. von Trier può benissimo essere accusato di manierismo, di eccesso di zelo nel cercare di trasferire sullo schermo le proprie idee artistiche, di narcisismo malcelato ma non di non essere autore con la a maiuscola, artista nudo e puro, capace di inchiodare con le sue stesse domande lo spettatore alla poltrona e ipnotizzarlo. La Casa di Jack fa parte di quel cinema che non si rassegna alla mediocrità, che cerca risposte come il proprio protagonista. È il cinema inteso come mezzo di espressione, come medium necessario per giustificare il proprio essere nel mondo da parte dell’autore. Viscerale ed epidermico, istintivo ma ugualmente incollato a un’idea primigenia di assoluta razionalità. La figura stessa di Jack è forse la trasposizione stessa del regista, anche se questo non ci è dato sapere perché von Trier qui si diverte e ci diverte, confonde: è come il suo protagonista un serial killer ossessivo-compulsivo di person(aggi) che ha bisogno in continuazione di uccidere ciò che egli stesso ha creato per ritrovare la strada capace di portarlo verso un nuovo efferato assassinio per costruire la propria arte.

Sono morti << vitali >> quelle che senza soluzioni di continuità si alternano sullo schermo. Jack l’assassino che vorrebbe essere allo stesso tempo ingegnere e architetto perpetra la mostruosità per smascherare i vizi del contemporaneo, si chiamino essi stupidità, ingenuità, caos. L’omicidio è lo strumento per comporre la sua << autentica >> casa, ovvero un assieme di corpi -i materiali- ai quali il post mortem dona un nuovo ordine, un’eternità quasi nobile che la vita avrebbe negato. Proprio come le uve lasciate a macerare per donare succo più dolce a quello che diventerà vino descritte in una delle allegorie di cui il fim è pieno. Perché in definitiva l’arte si nutre di morte, dell’inanimato, di ciò che quindi si può ricreare, manipolare per donare una memoria diversa. Il folle Jack trasforma il corpo del bimbo brontolone in un cadavere sorridente e beffardo; i cadaveri vengono ricomposti in pose pittoriche, fotografati e ciò che conta per il loro omicida non è l’immagine che appare ma la visione del negativo, perché la realtà che interessa a von Trier è quella che sta al di là dell’evidenza. Il film è tutto giocato su questo dualismo: ciò che osserviamo e ciò che sta dietro. La fotografia e il suo rullino. L’inganno dell’apparenza, la fatica nel voler andare oltre, quell’ << oltre >> che guarda caso riecheggia il Faust di Goethe- qui citato visivamente attraverso l’albero presente nel campo di Buchenwald-o i durissimi allenamenti di Glenn Gould alle prese con Le Variazioni Goldberg di Bach che fanno capolino nel film. von Trier si fa beffe di tutti. Traveste le proprie riflessioni sotto un velo di atrocità che non è spaventosa come molta critica ha sottolineato ma semplicemente grottesca e quindi ironica, graffiante, mai disturbante-nelle serie tv si vede ben di peggio- per giungere al nucleo centrale del discorso: il cammino del suo Jack è il tragitto che porta all’inevitabile metafora dell’uomo. Travestito da Dante, in accappatoio rosso, e accompagnato da Virgilio, il serial killer raggiungerà l’inferno e a lui spetterà l’ultima decisione, il rischio finale in una delle scene più belle viste al cinema negli ultimi anni. Ed essendo artista, quindi a caccia di una verità e di un sapere, non potrà fare a meno di optare per il rischio definitivo, per il tentativo che spinge l’uomo nel cercare di sottrarsi a ciò che egli conosce benissimo: la condizione del fallimento.

The House that Jack Built -e non semplicemente la casa di Jack come da titoli italiani- è un film di una bellezza esteriore che ha pochi eguali. Il rimando a esempi pittorici è continuo, così come i cambiamenti di luci nelle varie ambientazioni. L’opera affonda colpi, lascia stupefatti, raggiunge il proprio culmine alla fine, dove von Trier sembra quasi voler fare l’occhiolino al Rinascimento Elettronico di Bill Viola e rimanda ai grandi illustratori della Divina Commedia nella parte che riguarda l’inferno sancendo ancora una volta il valore della qualità contro la cialtroneria. In questo contesto a inserirsi alla perfezione è la prova di Matt Dillon, mai così bravo, mai così a proprio agio nella parte di Jack. Il suo è un personaggio che sembra uscito da un grande romanzo di formazione. Lucido assassino, uomo corroso dai dubbi, individuo in cerca di risposte che mai potrà avere. Efferato, crudele, normale nella propria follia compulsiva, riesce a essere credibile in ogni scena, anche in quelle più assurde. Con lui un bel campionario-Uma Thurman è la prima assassinata- e Bruno Ganz, Verge o Virgilio traghettatore di anime, per sua stessa ammissione impostore letterario su commissione, alla sua ultima interpretazione. The House that Jack Built come molti film di autori si specchia a volte nella propria bellezza, nel manierismo che può apparire gratuito, nella ripetizione di domande che forse avrebbero trovato (non) risposte prima . Ma guardiamoci allo specchio e domandiamo chi può offrirci al cinema al giorno d’oggi questo bombardamento di idee, bellezza e motivi per discutere. In pochissimi.

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