Julieta: la tragica e vitale discesa nel dolore di Pedro Almodovar

SI SCRIVE Alice Munro ma sembra di essere in un romanzo di Javier Marías e non solo perché Pedro Almodovar è spagnolo e sullo sfondo di Julieta pulsa il cuore vagamente melanconico e misterioso di quella grande città che è Madrid.È proprio la struttura dell’ultimo film di Almodovar a ricordare più che il premio Nobel canadese, dalla quale ha preso il soggetto, il modo di incedere nel racconto del maggiore scrittore spagnolo contemporaneo. Perché in Julieta, presentato a Cannes il mese scorso, il tutto o il nulla sembrano accadere in modo lento, studiato e invece ci si ritrova all’improvviso dentro a una vita travolta e stravolta dal peso dell’assenza e dei sensi di colpa; perché ciò che in apparenza sembra scontato e semplice, nella realtà è complesso, è un gioco di introspezione psicologica che non porta a un finale preciso ma lascia spalancata la porta a ciò che la vita riserverà ancora ai suoi protagonisti. È per questo che sulle prime Julieta può sembrare un’opera controversa, incapace di emozionare, di prendere lo spettatore di pancia e di pelle. Questa volta Almodovar chiede a chi osserva uno sforzo ulteriore; vivere questo film proprio come se fosse un libro, cercando di comprendere gli aspetti psicologici dei suoi personaggi perchè la trama è lì e c’è ben poco di sorprendente nell’esistenza di Julieta se non appunto la tragedia e la fatica del vivere stesso.

ALMODOVAR sparge sulla propria opera ampie mani di rimandi hithchcockiani: colori, atmosfere, musiche, gli esterni. Ogni elemento annuncia che qualcosa accadrà; è ostile, opprimente, minaccioso. È il mondo come lo vede e lo subisce Julieta una donna che decide di non partire con il proprio compagno per il Portogallo e che all’improvviso si nasconde nel vecchio palazzo dove ha vissuto assieme alla figlia. Nascondersi, celarsi alla vista altrui. Sono le parole giuste per descrivere la fuga di Julieta dentro se stessa; da qui parte il film e da qui l’autore spagnolo ci porta al cospetto di una vita. Andando a ritroso con Julieta giovane già alle prese con i primi sensi di colpa. Che vede la morte attorno a sè, che deve fare i conti con le assenze. La sua è una vita che ha il sapore dell’interruzione. Destino e l’oppressione dell’autocolpevolezza si mischiano, la carnalità è la naturale sublimazione della morte, i genitori diventano figli dei figli e questi ultimi padri e madri dei genitori. L’esistenza è punizione e no sense, ripetizione di fatti. La visione di Almodovar nel suo universo di perdite e di assenze-presenze è laica, quasi pagana, da tragedia greca. Non esiste alcun appiglio per consolarsi. C’è un fato sopra che determina lo svolgimento degli eventi ed è per questo che anche il finale non darà risposte definitive al trauma di Julieta lasciando tutto in sospeso e nel campo delle probabilità legate appunto a ciò che determinerà il destino.

PER RAGGIUNGERE il proprio scopo Pedro Almodovar racconta la storia di una madre e della figlia, del loro percorso di separazione e di scomparsa. Lo fa con una regia controllata, partecipe sì ma a distanza. Meno istintiva, appunto, più studiata, votata più al versante psicologico che spettacolare. Lascia da parte i suoi proverbiali fuochi d’artificio e le sorprese; diventa più sobrio nella costruzione della sceneggiatura, lasciando spazio alla tragedia dell’essere individui, alla forza delle donne, alla loro complicità. La sua genialità assesta colpi importanti nel seguire la vita di Julieta che nel film viene interpretata da due attrici differenti: c’è quella contemporanea impersonata da Emma Suárez e quella giovane da Adriana Ugarte in un continuo andirivieni dall’oggi al prima. C’è sempre un doppio, uno specchio nel quale rivedersi.E questo facilita il compito del regista che è interessato più che al dolore in se stesso a come questo incide provocando gli stati depressivi. Da questi discende la chiusura e quindi la progressiva disattenzione e disaffezione nei confronti del mondo esterno e di chi ci sta accanto. Il dolore rende ciechi, la depressione inconsapevolmente estranei. Così si gettano le basi per altre assenze, per altre sparizioni, per altre solitudini come una giostra che non smette mai di girare attorno a se stessa. Il rifugio dell’eroina di Almodovar, il suo leit motiv, saranno sempre i libri da portarsi appresso nelle fughe, il trovare nella scrittura l’unica valvola di sfogo per parlare ai propri fantasmi, per cercare di affrontarli in un disperato tentativo di ricostruire mentalmente una relazione con chi non c’è fisicamente. Julieta è vittima della vita stessa, è incolpevole così come non è rea la figlia né reo è il padre superficiale. Almodovar non giudica: mette in scena gli accadimenti dell’esistenza, sparge i cocci del passato che fluttuano negli anni, accompagna i propri personaggi << resistenti >>, sconfitti ma vitali, che si interrogano, si giudicano, si macerano e angustiano. Nel dolore, nell’impotenza causata da esso, trovano la forza per andare avanti. Contradditori come la vita e per questo ancora vivi. Ci sono naturalmente anche i simboli cari all’autore spagnolo: l’uso dei colori, del rosso che spesso fa capolino sulla scena come nell’incipit dove è usato come drappo del sipario; gli orologi enormi che sembrano segnare sempre la stessa ora, le piccole sculture che mostrano uomini da racchiudere nel cellophane e portare con sé, simulacri di una carnalità forse interrotta, messa nel limbo.Lo spettatore è chiamato ad assistere, accorgendosi che in scena c’è vita e non finzione.

IL FILM è ben recitato dalle due interpreti principali:Suárez è intensa; vaga come un fantasma per le strade di Madrid, accorda la propria ricercata solitudine con gli arredi spogli ed essenziali delle case in cui vive;viaggia con la mente nel passato. Ugarte interpreta il suo ruolo impegnativo passando dalla sensibile leggerezza di una difficile gioventù alla tragedia muovendosi proprio come un’eroina hitchckokiana. Nel cast, dove nessuno sbaglia, c’è spazio anche per la sempre bravissima Rossy De Palma, domestica del marito di Julieta, vero e proprio elemento di equilibrio tra commedia e tragedia e inquietante presenza di quest’ultima opera dell’autore spagnolo. Un film forte, potente, forse meno immediato pur nella sua semplicità dei precedenti, ma molto interessante e profondissimo. Segno che ancora una volta Almodovar non ha sbagliato.

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