La Pazza Gioia:dai drammi della psiche alla gioia del cinema spumeggiante di Virzì

PAOLO VIRZÌ ha una qualità rara tra i registi italiani: non fa cinema sul proprio cinema, non ci offre nulla di egocentrico e narcisistico; i suoi sono film ariosi, aperti, respirabili ma mai superficiali. Hanno costruzioni precise, dove poco o nulla viene lasciato al caso; non si arrotolano su se stessi. Perché Virzì ha i tempi della commedia, sia essa tragica o comica. Perché se si osserva la sua filmografia è uno dei pochi autori di casa nostra capace di affrontare il presente, di analizzarlo, di mostrarcelo e soprattutto di narrarlo. C’è sempre infatti nelle sue opere ciò che spesso manca ad altri colleghi: la capacità di raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento, un finale. Lasciando perdere l’accento sul proprio punto di vista, perché Virzì sa che quello è ciò che appunto sta mostrando allo spettatore e non c’è bisogno di gigioneggiare troppo. La Pazza Gioia, presentato fuori concorso a Cannes, probabilmente farà ricco di incassi il proprio autore. Trovo difficile pensare che a qualcuno non possa piacere così come trovo improbabile ci possa essere fronda di contestazione nei confronti di un’opera che ha per davvero tutte le caratteristiche per essere distribuita e accolta con successo anche all’estero. Osservando questo film dal lato più volgare-ovvero il vile denaro potenzialmente incassabile-non c’è proprio nulla che possa ostacolare il suo cammino. È un’opera completa, rifinita nei minimi particolari, recitata alla grande dalle due protagoniste, frizzante,intelligente ,persino straripante nella capacità di stuzzicare i nervi emozionali degli spettatori.

LA PAZZA GIOIA parla di donne; quelle che stanno dall’altra parte, che camminano sul filo sottile che divide la considetta normalità dalla follia. Sono donne alle prese con problemi psichici di media gravità, sconfitte da un passato fatto di abbandoni, violenze,inganni e indifferenza. Quelle che si cerca di recuperare appieno alla vita inserendole in case protette da dove poter iniziare un cammino verso una sospirata normalità, ammesso e non concesso che questa esista per chiunque. Lontane comunque dagli obbrobri degli ospedali psichiatrici giudiziari, creatori anche di annullamenti di personalità e di esclusione totale dal vivere civile. Una materia complessa, delicata, da affrontare con pudore o con secchezza, ideale per costruire drammi da mostrare. Ma questo è un film di Paolo Virzì, uno che per arrivare al nocciolo del problema è in grado di ribaltare tutti gli schemi. Così la materia tragica viene presa a calci e beffeggiata; la pesantezza della condizione esistenziale di quelle donne si trasforma in leggerezza da mostrare e far vivere a chi osserva senza rinunciare alla riflessione. La << pazzia >> nelle sue varie forme diventa anche, ma non solo, il mezzo per costruire una scoppiettante commedia << on the road >> sulla ricerca di se stessi e della conseguente libertà, sul tentativo di costruire giorni felici. Virzì, coadiuvato da Francesca Archibugi, qui in veste di cosceneggiatore e soggettista, dal mucchio di una strampalata comunità di ospiti di una villa protetta sceglie due eroine: l’una, Beatrice Morandini Valdirana, è l’elegante,logorroica erede di una nobiltà tipicamente toscana finita là dentro e in custodia giudiziaria per averne combinate di cotte e di crude in nome dell’amore per un uomo sbagliato; l’altra, appena giunta in comunità, è Donatella Morelli, con manie suicide, distruttive, ex tossica, ex ballerina di lap dance in un locale alla moda della Versilia. Due personaggi l’uno all’opposto dell’altro per status sociale e per passato, unite però dallo stesso identico dramma. L’incontro e l’unione tra le due le porterà a una fuga e a una serie di incredibili avventure, al far finta di essere normali, al combinarne di tutti i colori mentre sono inseguite da chi le ha in custodia. Sono troppi i colpi di scena e i fuochi d’artificio del film per descriverli, anche perché si sottrarrebbero divertimento e sorprese. Essendo un film di Paolo Virzìdiventa automatico che dietro a questa facciata spensierata si celino ombre che dovranno essere guardate negli occhi da Beatrice e Donatella. Il loro conoscersi a poco a poco, l’accettarsi, permetterà di andare nel fondo dei loro buchi neri e a costruire un legame inscalfibile. Soprattutto ad accettare la loro condizione e quindi, potenzialmente, essere in grado di tornare a vivere.

VIRZÌ dipinge il quadro con la sua mente colorata e brillante. Lo fa portando alla luce del sole le sue due escluse. Le muove nelle loro scorribande lungo la Toscana, le fa cadere e resuscitare, le trascina in punta di piedi ad affrontare il passato. Essendo l’una lo specchio dell’altro crea la commistione. Il vulcano di parole del personaggio di Beatrice penetra in profondità nella conoscenza della chiusa ma più concreta Donatella. A poco a poco la sua ansia di verbalità inizia a confondersi con la volontà di salvare l’amica. Il cuore prende il sopravvento sugli orpelli. La ricostruzione di Donatella passerà proprio da questo, dall’incontro e dal mettersi a disposizione di Beatrice che diventa quella famiglia che mai ha avuto, la complice che ha sempre cercato, il confronto che mai è riuscita ad avere con un padre assente e una madre disinteressata e superficiale.Non è solo un incontro tra due solitudini; ma di due forme differenti della stessa malattia che le eroine di Virzì decidono di condividere, di prendere per i capelli, di mostrarsele reciprocamente e quindi di poterle comprendere.

VALERIA BRUNI TEDESCHI e MICAELA RAMAZZOTTI sono le mattatrici di questo film intenso, bello. Fanno ridere, piangere e non è esagerato definirle perfette e senza nei. Bruni Tedeschi offre un’interpretazione carismatica. Non so se la migliore in assoluto della sua carriera, di sicuro è l’asse portante della storia e del film stesso. Dalla prima all’ultima scena il vulcano di battute, espressioni, atteggiamenti, di metro nel porgerle senza mai apparire ridicola, la portano a un livello da grandissima attrice e confermano la crescita in intensità che ormai da parecchi anni contraddistingue le sue performance. Perché non è in grado solamente di far ridere, di burlarsi di un ambiente e dei suoi tic. La sua Beatrice squarcia anche questo; è un vulcano sì ma di profondità e generosità. Micaela Ramazzotti le sta a fianco e rivaleggia in bravura. Parla di meno, recita con l’espressività, con il fisico ferito ed emaciato, con lo sguardo e gli occhi che si perdono nel proprio passato e nella propria disperazione. È una perfetta ragazza interrotta in cerca di una vita che la possa anche cullare. Dai suoi occhi passano i momenti più drammatici e commoventi del film, dove il cast costruito da Virzì fornisce una prova corale pirotecnica. Tutti quanti, nessuno escluso.

IN << LA PAZZA GIOIA >> c’è spazio anche per le stilettate, cosa che da un livornese è lecito attendersi sempre. Sull’ostracismo politico e culturale verso il cinema italiano e verso chi lo fa-sprezzante a questo proposito la battuta nel film del personaggio della madre(anche nella realtà) di Beatrice-Bruni Tedeschi sull’affitto della villa-,sul berlusconismo di ritorno, sui tic di una nazione che vive di superficialità e di apparenza, sull’alienante atmosfera dei centri commerciali, sui contrasti burocratici tra chi dovrebbe lavorare per lo stesso obiettivo. Su alcuni si può concordare, altri possono essere più pretestuosi ma è chiaro che la lettura di Virzì si inserisce mai a gamba tesa, piuttosto va colta e quindi ci può stare. Se la può permettere perchè è un grande autore in grado anche di inserire nel film alcune citazioni indirette di illustri film del passato, senza mai perdere la propria unicità. Nei birignao da cineforum lo si definirebbe il Jonathan Demme italiano. C’è poi, come in tutte le sue opere, il rimando a canzoni del passato. Qui dal telefonino di Donatella-Ramazzotti escono le note di Senza Fine di Gino Paoli. Troppo scontato scrivere che alla conclusione di La Pazza Gioia si resta pazzi di gioia. Ma è la verità. Senza se e senza….ma.

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