Il remake può colpire ancora?

funnygames-3.jpgGuardando il remake di << Funny Games >> mi sono chiesto quale sia l’utilità del rifacimento da parte di uno stesso autore, Michael Haneke, dell’identico film girato undici anni orsono. Come molti della mia generazione ero rimasto colpito dalla prima versione del film, quella con lo scomparso Urlhich Muehe, sua moglie nella vita come nella fiction Susan Lothar e i giovanissimi Arno Frish e Frank Giering. Un thriller capace di evocare in alcune scene l’ultimo Peckinpah di << Ostermann Week End >>, un noir psicologico che a seconda della predisposizione dello spettatore poteva essere visto come opera ironica o come discesa nelle zone oscure di ognuno di noi.Nella realtà << Funny Games >> del 1997 era un lavoro su come la violenza fosse entrata nel nostro quotidiano attraverso i media, su come potesse essere rappresentata e soprattutto vissuta dall’osservatore. Haneke stesso, in un’intervista rilasciata a distanza di anni dalla scoppiettante e contestata anteprima di Cannes, rivelò il senso massmediologico del film e di quanto fosse rimasto colpito nel leggere di alcuni episodi di violenza perpetrati da giovani di buona famiglia e all’apparenza del tutto inseriti nella società, avvenuti in Austria in quel periodo. Ora ha ripetuto la stessa operazione: chi si attendeva l’adeguamento di << Funny Games>> al contemporaneo è rimasto in parte deluso perché il regista ha consegnato ai nuovi interpreti Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt e Brady Corbert un copione identico, una fotocopia alla quale ognuno di loro ha aggiunto le proprie caratteristiche di interpretazione, non mutando di fatto il nucleo del discorso. Haneke quindi non ha evoluto << Funny Games >>, si è limitato solo a riproporlo, mutando pochissimi particolari, l’autovettura che traina la barca, il cellulare al posto del telefono, le corse Nascar che scorrono in televisione a sostituire quelle del DTM tedesco. Per il resto tutto è uguale, persino lo splendido incipit con gli indovinelli che la moglie e il marito si pongono tra un’aria cantata da Renata Tebaldi e un’altra da Beniamimo Gigli. Non cambia il modo con il quale Michael Pitt interagisce con il << voyeur >> in sala: è lo stesso del 1997, quello che all’epoca spiazzava e che ora nulla aggiunge. Come ha intelligentemente sottolineato il sempre acuto Mereghetti all’epoca non esisteva il Grande Fratello e i << reality show >> apparivano frutto di un’immaginazione ancora da concretizzare in dato di fatto. Mi sembra quindi del tutto logico che << Funny Games U.S. >> – questo il suo titolo originale- possa colpire chi aveva perduto la prima versione e lasciare del tutto indifferente quel numeroso gruppo di appassionati che su << Funny Games >> aveva concentrato il proprio interesse e subìto l’indubbio fascino. Anche perché in questi undici anni nel dibattito finale tra Paul e Peter se sia più vero ciò che appare di ciò che è, si sono inseriti molti fatti nuovi, dei quali Haneke non ha voluto tenere conto. Quasi esista la superbia nel regista di avvertirci che lui aveva previsto tutto quanto con largo anticipo. Ciò non toglie che la versione girata nel 2007 resti pur sempre un’opera meritoria e di gran classe ma che gli amanti di << Funny Games >> 1997 osservano con un certo distacco, attirati maggiormente dagli sguardi sperduti e interrogativi di chi non aveva avuto la fortuna o l’intuito di conoscere la prima versione.

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