I bimbi di Haneke inquietanti ma non troppo

il-nastro-bianco.jpgPer sgombrare il campo dagli equivoci scriviamo subito che << Il nastro bianco >> di Michael Haneke è un ottimo film. E’quindi meglio non prendere nemmeno in considerazione alcune critiche feroci che gli sono state rivolte dai recensori che da sempre hanno una sorta di prevenzione nei confronti del regista austriaco, ormai naturalizzato francese. Se << Il nastro bianco >> ha vinto la Palma d’Oro a Cannes, ripetendo il trionfo de << La pianista >>, 2001, e superando il verdetto del 2005 di << Niente da nascondere >>, premio alla regia, non è un caso. Forse a Cannes nel 2009 ci sono state pellicole migliori, penso al film di Audiard per esempio, ma alla fine non è che il riconoscimento principale sia andato a un film che presto cadrà del dimenticatoio. Tutt’altro. Chiarito il concetto è da sottolineare che << Il nastro bianco >> appare però come un’opera atipica della cinematografia di Haneke. Più didascalica rispetto alle precedenti, più programmatica, meno misteriosa e per questo meno magica, meno affascinante. Non che si pretenda sempre di spaccarsi la testa contro il muro per cercare di risolvere i dubbi, le domande che i registi ci pongono e si pongono. Però alla fine de << Il nastro bianco >> c’è troppa gente soddisfatta, sorridente, contenta che di domande non ne ha da rivolgere. Nella trasparenza di trama e di svolgimento Haneke inverte il proprio percorso autorale, segue un territorio al quale non è aduso , che percorre benissimo, ponendo tutti gli elementi del suo << antico >> discorso sulla autorità, sull’intransigenza religiosa e del potere, sulla conseguente ribellione, sulla doppia anima dell’uomo, con perfetta maestria. Ed è forse questo che non convince appieno, che consente a una leggera delusione di fare breccia in chi per esempio ha amato moltissimo << Niente da nascondere >>, il suo film migliore. Giocando con quel titolo, in << Il nastro bianco >> Haneke avrebbe dovuto celare, offrirci qualche dubbio, graffiarci e percuoterci. Invece niente nasconde. Una voce fuori campo ci parla dallo schermo nero: è un vecchio maestro che ricorda, come nelle favole, cosa successe nel 1913 in un villaggio rurale della Germania del nord. Tutto iniziò con la caduta da cavallo del medico del paese, causata da una misteriosa fune legata a due alberi che mai più si ritroverà. La figlia accorre, accorre la levatrice che poi scopriremo essere sua amante, accorrono i bimbi della scuola. Sono belli, biondi, seguono sempre l’algida figlia del pastore protestante, quella che prende la parola, che pone domande. Osservando quei volti lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un mondo inquietante. Gli vengono in mente i bambini di quel meraviglioso film di Joseph Losey del 1961 << Hallucination ( The Damned) >>, si prepara da subito a comprendere che non sarà una edulcorata storia sulla vita agreste o sui pianti degli adolescenti. Infatti nelle case si consumano drammi privati. Al di fuori di esse accadimenti misteriosi che, a confronto, quello del dottore è una punturina di formica. Una mezzadra, lasciata libera dalle incombenze nei campi, muore precipitando nella segheria, un fienile viene incendiato, il figlio del barone, ovvero dell’autorità finanziaria del paese, scompare e quando lo ritrovano scoprono che è stato malmenato e legato.E’un’escalation di violenza senza apparente motivo che mai vediamo che entra nei discorsi pubblici della gente ma che viene tenuta al di fuori delle case. La vera violenza Haneke ce la mostra nel privato: il pastore protestante obbliga figlia e figlio maggiore a indossare un nastro bianco per recuperare la purezza perduta. Il piccolo figlio del medico pone domande alla sorella sulla morte, capisce che gli hanno mentito sulla sorte della madre e ha un primo gesto di ribellione. L’intendente, volgare, sembra non curarsi dei figli. Il medico domanda alla propria piccola << Scusa quanti anni hai?>>, riempe di insulti la governante-amante, esprimendo forse le peggiori nefandezze che si possano dire a una donna di tutta la storia del cinema (del genere << mi ha sempre fatto schifo il tuo alito che puzza; sei ributtante >> e via dicendo) e inizia ad avere un interludio incestuoso con la figlia, magnificamente trattato da Haneke che ce lo illustra attraverso gli occhi di un bambino. Tra punizioni corporali, ordini morali, annullamento della personalità femminile in ogni casa, tranne in quella del barone dove la moglie sembra portare istanze nuove, il paese resta sempre uguale a se stesso mentre i misteriosi accadimenti proseguono senza soluzione di continuità. Haneke gira tutto in bianco e nero, sappiamo del cambiamento delle stagioni solo attraverso le parole del maestro io narrante, l’atmosfera è quella di un Bergman d’annata dove appunto manca lo struggimento interiore, il potere, fortissimo, del dubbio.E’ fin troppo chiaro, fin troppo prevedibile e annunciato che, pur non conoscendo ancora i colpevoli, lo spettatore sappia chi sono. E’ l’antico gioco dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Haneke ha una tesi e quella sviluppa: da una società << mostruosa >> basata sui principi esasperati dal luteranesimo di << confessione, punizione, perdono >>, dal marciume interiore delle famiglie non possono che nascere mostri. Haneke, a differenza del citato Losey, spezza le gambe all’innocenza dei bimbi. E nemmeno il maestro, l’io narrante, è l’anima pura del gruppo. Lui racconta, lui ha capito, lui si confida, ma tutti, felici e contenti, si ritroveranno in chiesa, quando una << tendina >> lentamente scorre sull’immagine di gruppo nella quale il pastore protestante dà una pacca sulla spalla a un suo << giovane >> fedele come per dirgli che ora anche loro sono pronti a prendere il posto che la storia gli ha riservato: la nascita del nazismo. Così mentre scorrono i titoli di coda e la gente annuisce , si resta soddisfatti delle stesse certezze di Haneke. Aritmetiche, due più due uguale a quattro. Categoriche come un precetto kantiano. Assolute come le parole del pastore. Rigide, bloccate, senza opportunità di controbattere. Appunto Haneke non ci nasconde nulla in questo film meraviglioso per tecnica, gusto, ritmo, raffinatezza di ripresa ma con il limite di non lasciarci mai nella zona grigia che Bergman ci avrebbe donato.

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