Altri film in poche righe

The Stranger: un imperdibile noir australiano

The Stranger di Thomas M.Wright con Joel Edgerton e Sean Harris. Uno dei migliori noir degli ultimi anni che ho perduto all’epoca dell’uscita, nel 2022, e poi recuperato. Il film di Wright è tratto dalla storia vera di come venne catturato il maniaco Brett Peter Cowan, qui chiamato Henry Teague. La polizia australiana incastrò l’autore dell’omicidio del tredicenne Daniel James Morcombe con una spettacolare messa in scena, passata alla storia come Mr.Big, otto anni dopo il fatto, avvenuto pochi minuti dopo il sequestro del ragazzo alla fermata del bus del Sunshine Shopping Center nel Queensland. La polizia infatti organizzò una vera e propria recita, creando una finta organizzazione criminale che attirò Cowan invogliato a entrarvi perché in quel modo avrebbe fatto scomparire tutti i suoi precedenti attraverso una nuova identità. Un detective divenne di fatto il suo mentore e questo dopo mesi portò alla confessione. The Stranger vive proprio su questa relazione tra killer e investigatore. Due mentitori seriali che Wright inserisce in un‘atmosfera cupa, buia, senza luce, quasi ossessiva, giostrando in modo perfetto tutta la vicenda e svelando a poco a poco il male. Ed è proprio questo che affascina del film, il cui percorso non incontra alcun ostacolo dall’inizio fino alla conclusione. Guardandolo ho ritrovato atmosfere simili al lavoro che nel 2003 rivelò al pubblico europeo Bong Joo-ho, ovvero Memories of Murders()https://guidoschittone.com/lo-scandalo-di-una-distribuzione-mancata/.) Sean Harris nella parte del maniaco assassino fornisce una prova attoriale convincente ed espressiva senza mai andare a forzare il proprio personaggio. Anzi la sua è un’ambiguità fatta di piccoli gesti, di espressioni facciali, di particolari che a volte mettono i brividi. Joel Edgerton, il poliziotto, sembra ripagarlo con la stessa moneta: man mano che l’indagine va avanti e in contemporane la relazione con l’assassino, fa precipitare anche lo spettatore nell’orrore e nella paura, nella perdita di sicurezza, in quella ossessione psicologica che costituisce la base del film. Per la cronaca Edgerton è anche produttore dell’opera perché fu quasi ipnotizzato dal fatto di cronaca e dalla lettura del libro da cui The Stranger è tratto. Sempre per la cronaca in The Stranger non c’è un cadavere, non c’è sparatoria, non c’è violenza fisica. È tutto concentrato nei meandri psicologici dei protagonisti. Un film imperdibile, presente su alcune piattaforme.

Puan-Il professore: dall’Argentina una commedia simil militante

Puan-Il Professore di Benjamin Naishat e Maria Alche con Marcelo Subiotto e Leonardo Sbaraglia. Il mondo universitario è spietato ovunque, anche alla facoltà di filosofia politica di Puan, l’Università Pubblica di Buenos Aires. Quando il titolare della cattedra muore, il suo assistente prediletto deve confrontarsi con un altro professore da anni emigrato in Germania e impegnato in numerosi consessi internazionali. Il problema è che si scontrano due modi differenti di intendere la filosofia: da una parte c’è una ricerca esasperata delle basi tradizionali, da Eraclito a Heidegger passando per Hobbes, dall’altra la visione modernista che abbraccia anche l’intelligenza artificiale. Gli autori caratterizzano molto bene le due figure in campo: la prima, interpretata magnificamente da Marcelo Subiotto, ricalca quella tradizionale dell’individuo al quale ne capitano di tutti i colori, senza che lui ne abbia responsabilità. La seconda, dove spiccano l’impertinente sorriso e la sfacciataggine di Leonardo Sbaraglia, è lo stereotipo dell’arrivista forse di talento. Ma oltre a questa impalcatura a tratti surreale e spassosa, pur non essendo nuova, i registi pongono l’accento sul significato della resistenza nel momento in cui virano dall’allegoria alla realtà politica di una nazione che sembra, proprio come l’esistenza del professore interpretato da Subiotto, imprigionata in schemi e nel caos. La commedia è gradevole. Ci sono grandi discorsi filosofici che servono come un ripasso da bignamino e situazioni divertenti ma già viste. Per la cronaca alla Pubblica Università di Buenos Aires(Puan appunto) vennero tagliati i fondi dal nuovo governo liberista portando poi a una serie di manifestazioni e contestazioni da parte di corpo docente e studenti. Buono e molto allegorico il finale.

La Testimone: dall’Iran un altro inno alla libertà

La Testimone di Nader Sayevar e Jafar Panahi con Maryam Boobani. Assieme a Il Seme del Fico Sacro(Il Seme del Fico Sacro) e al Il Mio Giardino Persiano(Il Mio Giardino Persiano) è il terzo film iraniano giunto sui nostri schermi tra il 2024 e i primi mesi del 2025. Come gli altri due pone l’accento su ipocrisie del sistema teocratico e sull’ormai plateale voglia di cambiamento da parte della società. Anche in La Testimone-Shaed ci si trova di fronte a una storia solo in apparenza differente dalle altre che il cinema di quella nazione ci ha offerto ma in realtà identica. L’insegnante Tarlan, l’ottima e convincente Maryam Boobani, cerca di denunciare per omicidio il marito della figlioccia adottiva, un uomo di affari che ha forti legami con il governo. Scatenerà quindi una serie di pressioni e di conseguenti coazioni per essere messa a tacere. Nonostante si trovi in una condizioni di inferiorità, è un’anziana attivista con figlio uscito di prigione grazie all’intervento del << cognato>> omicida, la donna cercherà una vendetta grottesca che farà virare il film su un finale ottimistico, un autentico inno alla libertà, forse fin troppo didascalico. La Testimone, scritto e montato da Panahi e girato dal suo sceneggiatore Sayevar in difficili condizioni ambientali-un classico- non aggiunge nulla di nuovo a ciò che ormai ci giunge dagli autori iraniani ma è utile per comprendere le complesse dinamiche sociali di una nazione dal doppio volto. L’Iran ha voglia di libertà: la figlioccia della protagonista è proprietaria di una scuola di danza e questo viene considerato scandaloso dal compagno che non vuole compromettere la propria carriera, il che è molto simile a ciò che accade ne Il Seme del Fico Sacro. Ci sono invece le seguaci della teocrazia che minacciano denunce alla polizia morale solo per il fatto che non ci si ripari il capo con hijab proprio come nel Il Mio Giardino Persiano. Sono situazioni che gli iraniani pagano sulla propria pelle nel quotidiano. Il film in ogni caso è ottimo, tutto incentrato sulla vitalità della protagonista e su un cast che lavora alla grande. Nella Sezione Orizzonti Extra della mostra veneziana del 2024 si è aggiudicato il premio degli spettatori.

Vermiglio, quadri da un mondo in cambiamento

Vermiglio di Maura Delpero con Tommaso Ragno, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi e altri. Leone d’Argento alla Mostra veneziana del 2024 più che una sorpresa è una magia. Ritmo perfettamente accordato alla natura, inquadrature che da sole sembrano andare oltre la sceneggiatura, eco fortissima di quel cinema che apparteneva a Olmi ma anche a Michelangelo FrammartinoL’occhio che dice– e in parte al primo Giorgio Diritti, ognuno dei quali si porta appresso la lezione dell’immagine come significante, Vermiglio è un ritratto dolce ma severo di un mondo che stava scomparendo. Siamo alla conclusione della seconda guerra mondiale in un piccolo villaggio della Val di Sole, Vermiglio appunto, a seguire le vicende della numerosa famiglia del maestro Graziadei. Alcuni soldati sono sfollati, le ragazze si innamorano, la sussistenza non basta per far studiare tutta la prole. Bisogna scegliere chi può andare avanti e chi far restare indietro. Maura Delpero affronta questo mondo che ora ci sembra arcaico, lasciando che siano i piccoli gesti, le parole in dialetto, le penitenze, le superstizioni, le illusioni, il senso di rassegnazione a suggerire i tanti temi che si celano dietro appunto immagini che sembrano quadri capaci di vivere di luce propria. Si avverte il vento di una società che è in mutazione , dove dietro lo scandire delle quattro stagioni, sibilano crepitii di ribellione e insoddisfazione. Si arriverà a delle scelte: chi prenderà i veli per ricercare una artificiale libertà, chi troverà il senso della maternità. Vermiglio è un film che ti porta a sdraiarti in quella terra di Dolomiti, fissare il cielo e chiedere a qualcuno:<< raccontami una storia ma fallo piano, prendendoti il tempo, parlando poco ma dicendo tutto>>. Delpero ci riesce con ferma delicatezza.

Parthenope, scampoli di grande cinema

Parthenope di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Peppe Lanzetta, Isabella Ferrari, Stefania Sandrelli e altri. Visto in ritardo sulla tabella di marcia; è il classico film di Sorrentino, un po’come dire prendere o lasciare. Prendere di sicuro per scampoli di grande cinema che l’autore napoletano sa dispensare come pochi al mondo, comprese alcune battute che resteranno nella storia, come quella riguardante …l’antropologo Billy Wilder. Lasciare per il continuo compiacimento di sé stesso che, salvo il riuscitissimo È stata la mano di dioÈ Stata La Mano di dio: l’arcadia ritrovata di Paolo Sorrentino– ormai si è impadronito del sommo. A conti fatti e dietro alla napoletanità, Parthenope si trasforma in una riflessione potente sul tempo, sulla nostalgia, sull’impossibilità di ricreare quell’arcadia esistenziale che aveva rappresentato il nucleo centrale della sua opera precedente. È come se Sorrentino attraverso l’allegorica figura interpretata dalla brava Celeste Dalla Porta faccia i conti con gli anni che passano, giocando sul mito e smontandolo pezzo per pezzo. Centrali a questo proposito sono le figure del professore, Silvio Orlando molto convincente, e di Peppe Lanzetta, Tesorone, ai quali spettano le parti migliori dell’opera. Tra dialoghi surreali e qualche forzatura di troppo, Parhenope resta in ogni caso un film importante che non lascia indifferenti. Perché Sorrentino, lo si voglia o no, lo si ami oppure no, resta Sorrentino. Ha un qualcosa in più. Peccato lo sappia anche lui e che a volte ci giochi fin troppo. Da persona pragmatica il suo ultimo film mi ha sollevato qualche dubbio: l’ho trovato troppo didascalico in alcune parti, parecchio nel finale. Ma la mia zona sensibile l’ipnosi l’ha ricevuta. Devo decidere in quale stare.

La Stanza Accanto: Almodóvar in formato ridotto

La Stanza Accanto di Pedro Almodóvar con Tilda Swinton , Julianne Moore e John Turturro. Leone d’Oro 2024 a Venezia, non è il miglior film del grande regista spagnolo. Almodóvar ci parla ancora di morte e sentimenti, di vita che sfugge ma lo fa senza quel ritmo che da sempre accompagna il proprio cinema. La grande interpretazioni di Swinton e Moore non salva però quest’ultima sua opera dalle difficoltà. Siamo agli ultimi giorni di un’inviata di guerra, Swinton, che decide di interrompere la chemioterapia per rifugiarsi in una villa con la sua amica ritrovata, Moore, scrittrice che ha problemi con l’innaturalità della morte. Il patto segreto tra le due sarà quella porta rossa che resterà chiusa il giorno in cui Swinton prenderà una pillola per porre fine alle sue sofferenze. La riflessione su morte, sull’apnea che coinvolge chi sa di essere alla fine è profonda ma Almodóvar si perde per strada, gestendo molto bene la forma ma non riesce a indurre lo spettatore a restare concentrato su ciò che vede. Tutto è troppo studiato e privo dei colpi di genio che gli appartengono e anche lo spunto riguardo l’eutanasia non viene approfondito come si sarebbe atteso. Eccessive le continue citazioni, troppo lenta la prima parte. Sembra quasi un film dimezzato, che non sa dove andare a parare né sul versante mélo né su quello civile. La Stanza Accanto ha diviso: molti lo hanno giudicato un film ottimo, non a caso la Giuria di Venezia lo ha premiato, altri una prova da dimenticare. Personalmente da fan del regista l’ho trovato noioso, poco coinvolgente non a causa dell’argomento né per resistenze psicologiche. Da Almodóvar mi sarei aspettato molto di più. Ma sono gusti.

A New Kind of Wilderness non nuovo ma piacevole

A New Kind of Wilderness di Silje Evensmo Jacobsen. La camera della regista norvegese segue le sorti della famiglia della fotografa Maria Gros Vatne che decide con il marito Nick Payne di andare a vivere al limitare di una foresta per immergersi sia epidermicamente sia mentalmente nella magia del mondo naturale. Assieme a loro i quattro figli, la maggiore avuta da una precedente relazione di Maria. La donna morirà di cancro lasciando Nick alle prese con la gestione di figli e della vita stessa. È un documentario sul senso della perdita e su come possa essere compatibile organizzare l’esistenza alternativa quando vengono a mancare i cardini affettivi e le risorse materiali, alias il denaro. Non c’è nulla di nuovo in questa opera che ha ricevuto un premio al Sundance del 2024, eppure Jacobsen è bravissima nell’immergersi nel dolore di marito e bimbi, seguendoli passo dopo passo verso l’elaborazione del lutto e nel cambiamento dello stile di vita con l’ingresso in quella società da cui in precedenza si erano allontanati per scelta filosofica. Straordinario soprattutto il focus sul travaglio del marito e della figlia maggiore che mantiene i contatti con la primogenita di Maria, con la quale condivide i silenzi e una fortissima empatia nonostante quest’ultima sia tornata a vivere con il padre naturale. Il tutto ripreso in diretta, con alcuni frammenti della voce e delle immagini di Maria, alla quale spetteranno le parole che concluderanno il film. A New Kind of Wilderness– esiste un blog creato da Maria Gros Vane e Nick Payne wildanfree.no– è anche un degno spaccato del sistema sociale e educativo norvegese. Il film è parecchio interessante anche se non nuovo. Jacobsen, amica della famiglia, riesce infatti a carpire i momenti quotidiani più intimi, le espressioni, il dolore e a poco a poco la voglia di reazione e il ritorno, senza tradimento del passato, al senso più profondo della vita. Qualche sforbiciata in sede di montaggio avrebbe reso A New Kind of Wilderness più dinamico nello svolgimento ma a me è piaciuto e mi ha toccato.

The Substance: vademecum di stile con finale alla Tsukamoto

The Substance di Coralie Fargeat con Demi Moore, Margaret Qualley e Dennis Quaid. Confesso che ho faticato parecchio a seguire il film che ha vinto il premio come miglior sceneggiatura al festival di Cannes del 2024 e ha proposto Demi Moore come candidata all’Oscar. Il problema con The Substance deriva dalla mia irreversibile belonefobia e quindi ogni qual volta vedo una siringa o un ago andare verso una vena chiudo gli occhi. Nel film mi è capitato molto spesso e la fatica deriva proprio da questo. Per il resto tra chi lo ha giudicato capolavoro e pietra miliare di una nuova cinematografia e chi lo ha contestato sto nel mezzo. Capolavoro proprio no, perché pur riconoscendone l’altissima qualità di messa in scena ho trovato tutto sommato elementare il discorso che sta alla base del soggetto e qui il tanto sbandierato femminismo di The Substance non c’entra nulla, visto che il ragionamento della brava regista Fargeat è ben più universale e aderente al nostro contemporaneo. Il film è, lo ripetiamo, perfetto per la forma estetica e per i continui rimandi ad opere di grandi maestri: da David Lynch a David Cronenberg, N.W.Refn per arrivare a un prefinale che sembra preso a prestito dal leggendario Tetsuo di Shinya Tsukamoto. Insomma un vademecum che serve a ripassare buona parte di quel cinema che usa il confine con lo splatter per creare allegorie e immergersi nella psiche umana. Chi lo ha visto assieme a me subito ha rammentato Twin Peaks, io di rimando ho ricordato Videodrome per arrivare appunto alla sfacciata imitazione del mostro del regista giapponese. I suoi limiti risiedono in un certo compiacimento, nella eccessiva ripetizione e quindi lunghezza. Bravissima la Moore, deliziosa Qualley che dopo le esperienze con Lanthimos sta crescendo e anche tanto come attrice.

Il Treno dei Bambini: una professionale semplicità

Il Treno dei Bambini di Cristina Comencini con Serena Rossi, Barbara Ronchi, Christian Cervone, Stefano Accorsi. Ogni tanto c’è anche il gusto di osservare e possibilmente vivere storie semplici, ben realizzate e coinvolgenti. È il caso del film di Cristina Comencini tratto dall’omonimo romanzo di Viola Ardone, liberamente ispirato all’iniziativa dell’Unione Donne Italiane e del PCI alla conclusione della seconda guerra mondiale. A Napoli, tra distruzione e macerie, non c’è da mangiare per i figli. Così si è costretti a inviarli al nord da famiglie che li possano accudire per qualche mese. Il film ci parla di questa vera e propria gara di generosità focalizzandosi sulla storia personale del piccolo Amerigo Speranza, di sua madre e della partigiana single che lo avrebbe accolto come un figlio. Il Treno dei Bambini è un film buono di persone buone e forse per questo rischia di procedere su un pericoloso crinale in cui tutto il marcio del mondo e di quel periodo resta sullo sfondo o appena accennato. Eppure, sembra una contraddizione, questa impostazione funziona a meraviglia perché tra la bravura degli interpreti, il ritmo svelto, e uno script che abilmente mescola momenti divertenti a malinconia Comencini crea un film godibile dal primo all’ultimo minuto. Non è un capolavoro ma un prodotto molto professionale e di largo respiro in cui non c’è alcuna novità ma ideale per commuoversi. Avendo alcuni sceneggiatori in comune con C’è Ancora Domani-che a me non è piaciuto per l’eccessivo plauso generalizzato- viene naturale fare un raffronto e devo ammettere di avere preferito di gran lunga questo. Bravi gli interpreti, ad iniziare da Christian Cervone, il piccolo Amerigo, per arrivare a Serena Rossi e Barbara Ronchi, ed eccellente la direzione dei tanti bambini da parte della regista. Il Treno dei Bambini è un’opera che il cinema italiano dovrebbe se non imitare almeno seguire, perché è in questo modo che si possono riempire le sale e rilanciare film di largo respiro e di cassetta. Non tutto deve essere per forza d’essai. Come insegnano gli << anziani >> il cinema per sopravvivere ed essere economicamente redditizio deve avere una base forte di prodotti medi, non mediocri. Un cinema fatto da professionisti. Comencini è una di questi.

Una debole Ultima Settimana di Settembre

L’Ultima Settimana di Settembre di Gianni De Blasi con Diego Abatantuono e Biagio Venditti. Fa rabbia pensare a un film che parte nell’incipit benissimo e poi in corso d’opera si perde per trasformarsi in una serie prevedibile di avvenimenti. Un vero peccato perché Diego Abantuono e il giovanissimo BiagioVenditti sono molto convincenti nella rispettive parti di nonno scrittore arrabbiato con la vita e figlio rimasto orfano dei genitori. Purtroppo, lo ripetiamo, le intuizioni del regista Gianni De Blasi riescono a completarsi e a giungere a realizzazione piena nella prima parte di un’opera in cui si cerca di scardinare i silenzi, le chiusure psicologiche reciproche, l’impossibilità di esprimere con le parole i sentimenti tra due persone devastate dal lutto. È un film sul dolore che prende poi una piega quasi da serie televisiva, scontata. Sia chiaro, il film si fa guardare e anche gustare perché Abatantuono è come sempre un gigante e da solo vale la visione. Bellissima la fotografia on the road del viaggio che nonno e nipote percorrono da Lecce verso il Lazio ma è la sceneggiatura che rischia spesso e volentieri di vanificare le intenzioni. Tratto dal romanzo di Lorenzo Licalzi, sceneggiato anche da Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa, ovvero i giganti dello splendido Qui non è Hollywood-qui non è hollywood-il film manca di mordente proprio nel momento in cui i protagonisti abbandonano la Puglia. Possiamo considerala un’occasione persa. Gran successo, comunque, sulla piattafoma Prime Video.

On Call-di pattuglia, una serie tv veloce e interessante

On Call di Eriq La Salle e Brenna Malloy con Troian Bellisario e Brandon Larracuente. È molto interessante la nuova miniserie, otto episodi, lanciata in gennaio da Prime Video. Una poliziotta e la sua recluta formano la pattuglia che controlla le strade e i quartieri di Long Beach. Adrenalina al massimo, quasi tutto girato all’interno dell’automobile e spesso ripreso in soggettiva, On Call è un prodotto superiore alla media per la cura realizzativa che non lascia un attimo di respiro allo spettatore. Ben descritta la relazione tra i due protagonisti, ognuno dei quali si porta appresso gli immancabili problemi individuali, cosi come gli autori riescono a gestire la tensione che procede, alzandosi, puntata dopo puntata. C’è un fil rouge a farla da collante, rappresentato dalla caccia a una banda di sudamericani spacciatori e assassini, e un’amara riflessione sull’impotenza della polizia, dettata da convenienze politiche, gelosie, interessi, buonismo imposto. Insomma non troppo distante da ciò che accade anche da noi. Ottimi gli interpreti: Troian Bellisario è la figlia di Donald Bellisario, produttore di NCIS, Magnun PI,Jag etc, mentre Brandon Larracuente è noto negli Usa per aver preso parte a molte serie tv. Gli episodi non superano i 37′ e quindi aggiungono un altro elemento positivo alla fruibilità del prodotto. Non è difficile pensare che dopo il successo di questa prima stagione se ne possano aggiungere altre.

Absolution assolto grazie a un ottimo Neeson

Absolution -Storia Criminale di Hans Petter Moland con Liam Neeson, Yolonda Ross e Ron Perlman. Ex pugile, criminale al tramonto della carriera cerca il riscatto morale nel momento in cui scopre di avere pochi anni di vita. Il suo cervello è malato, la demenza inizia a farsi strada ed è irreversibile. Storia trita e ritrita, abusata in cui Moland ha il merito di non trasformarla in un action movies come tanti. Il regista preferisce lavorare sul versante intimistico della vicenda, creando un film amaro sorretto da ununa eccellente interpretazione di Neeson, esattore di uno strozzino e all’occorrenza killer, che giustifica la visione. Per il resto la sceneggiatura fa acqua in alcune parti- proprio quelle relative all’azione- e raggiunge una sufficienza striminzita. Bella l’ambientazione di San Pedro, in cui tutto è avvolto da colori spesso sbiaditi che hanno il sapore della decadenza e di vite sprecate come quelle che ci offre il soggetto.

Civil War: la violenza del mostrare

Civil War di Alex Garland con Kirsten Dunst, Wagner Moura, Jesse Plemons, Cailee Spaeny. In futuribili e ballardiani Usa sconvolti da una guerra civile, un gruppo di reporter intraprende un viaggio attraverso i territori nemici per intervistare il presidente che presto sarà deposto dai ribelli. L’adrenalina raggiunge vette alla Michael Mann ma Garland usa tutta la sua maestria per creare una riflessione profonda su ciò che si mostra, la macchina fotografica usata come un colpo di fucile o di pistola. È un grande film, in cui ogni evento delittuoso, ogni violenza, ogni vittima deve essere immortalata nel momento cruciale. Fino a una sorta di ribellione etica da parte della protagonista principale. In questa America visionaria, dove menzogna e violenza allo stato puro costituiscono le basi esistenziali, Garland si muove con passi fermi e convincenti, creando la sua opera migliore, in cui graffia in continuazione, cercando di armonizzare violenza e l’ironia, come nello splendido finale. Civil War è un’opera che fa riflettere perché ci presenta un’America in cui i valori ormai si sono perduti e tutto è in mano alla vacuità morale dei media e dell’ossessione di dover fermare ogni momento attraverso il click fotografico o il ciak cinematografico. La realtà, quindi, elevata a schermo di sè stessa. Inspiegabile l’esclusione dagli Oscar. Kirsten Dunst è perfetta nella propria parte-una delle sue migliori di sempre- ed è convincente anche Cailee Spaeny, la Priscilla dell’omonimo film di Sofia Coppola. Brevissima ma parecchio intensa e geniale l’apparizione di Jesse Plemons nel ruolo di un soldato fuori di testa, assassino, ubriaco di sangue. È una piccola chicca di un film importante, da non confinare in alcun genere.

La Notte del 12:un’impeccabile ossessione

La Notte del 12 di Dominik Moll con Bastien Bouillon, Bouli Lanners. È un film del 2022 che va per forza ripescato dall’album dei ricordi perché è tra i migliori noir psicologici degli ultimi anni. La polizia giudiziaria di Grenoble indaga sul caso di una ragazza bruciata viva in un paesino fuori dalla giurisdizione degli agenti. Il giovane comandante e il suo anziano collega, Bouillon e Lanners, setacciano tutte le piste possibili e immaginabili ma non troveranno il colpevole. A volte un po’sbilanciato sul discorso di genere, in un mondo di uomini sono le donne a morire e gli uomini a indagare, La Notte 12 si trasforma come nella psiche del proprio protagonista principale, sempre Bouillon, in un’autentica ossessione di ricerca dell’ordine, della chiarezza nel caos dell’umanità. Caos che ogni personaggio si porta appresso anche nel privato: Bouli Lanners è devastato dalla richiesta di divorzio della moglie, incinta da parte di un altro uomo, mentre la figura del comandante di Bastien Bouillon subisce lo sconvolgimento dell’assassinio e l’impossibilità di scoprire l’omicida. Sembra di essere in un romanzo di Dürematt, in specie La Promessa(non a caso ispirazione per lo splendido e omonimo film di Sean Penn con un indimenticabile Jack Nicholson) ma il caso è tratto da una storia vera. Dominik Moll agisce sulla sceneggiatura con colpi da autentico maestro: indimenticabile il primo piano del comandante sul cui volto si sovrappongono quelli dei potenziali indiziati.

Rimini: vita in ghiaccio di fronte al mare

Rimini di Ulrich Seidl con Michael Thomas, Hans-Michael Rehberg. Uscito nel 2022, girato tra il 2019 e 2020 , fa parte di un dittico mai apparso in Italia sulla storia di due fratelli. Il suo << gemello>>, Sparta, a causa della censura-si parla di pedofilia- non è mai stato visto se non da pochi. Rimini racconta la storia del tramonto esistenziale di un cantante austriaco autoesiliatosi in una bella villa in decadenza a Rimini. La sua vita si divide tra giochi alle slot machine, stanze di alberghi in cui soddisfa sessualmente e per denaro anziane signore, squallidi concerti in improbabili sale di hotel dove accorrono dall’Austria gruppi di pensionati, gli unici che ancora hanno memoria della sua notorietà. È il tramonto di un’esistenza allo sbando, in cui il personaggio di Richie Bravo, magnificamente interpretato da Michael Thomas, deve anche confrontarsi con il padre malato, rinchiuso in un ospizio austriaco, claustrofobico come una prigione. Il film di Seidl estetizza questo mondo giunto all’inverno attraverso una Rimini dove è fortissimo il contrasto tra il passato, i colori pastello delle cabine degli stabilimenti balneari, e le dissolvenze nebbiose e la neve che gravano come macigni sul presente del protagonista. Quello che ci mostra Seidl è un mondo ormai scevro di sentimenti, di un’umanità giocoforza costretta ad appoggiarsi ai bisogni primordiali, priva di alcuna idea di futuro e di progetto. È la speranza tradita anche dei legami familiari. La figlia del cantante si palesa all’improvviso per sconvolgere, ma solo per questioni di denaro e di sussistenza, il desolato tran tran del protagonista. I debiti con il passato, gli abbandoni e l’irresponsabilità genitoriale di Richie Bravo, verranno saldati attraverso il ricatto. Il film è formalmente un quadro. Rimini si trasforma nel simbolo della cupezza. È natura morta. Al posto del leggendario cappotto di cammello di Alain Delon ne La Prima Notte di Quiete di Valerio Zurlini, ci sono gli improbabili abiti da rocker anni’60, le pellicce indossate da Michael Thomas mentre schiere di immigrati dormienti restano immobili sullo sfondo, autentiche quinte di molte scene. E ci sarà un motivo. Rimini è un film lento, a volte ripetitivo, non privo di fascino. Incipit e finale sono affidati all’ultima interpretazione in vita di Hans-Michael Rehberg: entrambi fanno da equo contraltare alla storia del film, alla grottesca fine del suo protagonista e a quello della nostra società.

Il Male Non Esiste: affascina e convince la poetica di Hamaguchi

Il Male Non Esiste di Ryūsuke Hamaguchi. Il regista di Drive My Car si migliora con questo film, premiato con il Leone d’Argento a Venezia 2023, riuscendo a tenere incollati allo schermo gli spettatori dal primo all’ultimo minuto. Film affascinante, solo in apparenza lento, in realtà immerge chi lo guarda nella scansione temporale della natura, nei suoi misteri, nella sua infallibile legge di equilibrio assoluto tra vita e morte. La serenità di una piccola comunità montana giapponese viene messa in crisi dall’arrivo di una società che ha programmato di trasformare parte di quel territorio in un gambling. Nel coro dei personaggi il vedovo Takumi sarà il punto di riferimento di tutti quanti, anche dei due esponenti che la società ha inviato nel villaggio per spiegare i cambiamenti che la novità apporterà. Hamaguchi realizza il contenitore visivo di una performance musicale di Eriko Ishibashi, raccontando la storia di un uomo, di sua figlia che vivono in perfetta simbiosi con ciò che li circonda. La cesura avverrà proprio come in natura; in un finale ermetico e affascinante il quadro si ricomporrà all’insegna di una giustizia severa, crudele, equilibratice. Film da non scambiare per manifesto ecologista-sarebbe troppo semplice- Il Male Non Esiste è un gioiello che travolge per armonia, crescita di tensione, mistero e amare verità.

Animali Selvatici:anatomia di una nazione

Animali Selvatici di Christian Mungiu con Judith State e Marin Grigore. Peccato averlo perduto ai tempi della distribuzione post Cannes 2022, perché il film di Mungiu non solo conferma la bravura e l’acume di questo autore ma si inserisce nel ristretto novero delle opere importanti degli ultimi anni. Siamo in un piccolo villaggio della Transilvania dove convive un crogiolo di etnie, romene, ungheresi, tedesche, zingare, mai realmente in pace tra loro. Il collante di questo fragile equilibrio sarà rappresentato da tre uomini dello Sri Lanka assunti nel panificio locale. Christian Mungiu cala il proprio bisturi nel tessuto sociale della Romania; analizza la propria nazione, le sue contraddizioni attraverso un cinema che può ricordare quello di Claude Chabrol. C’è un pastore, Marin Grigore, di ritorno dalla Germania, da cui è scappato dopo aver preso a pugni nel mattatoio dove lavorava il suo principale che lo aveva deriso dandogli dello zingaro, che ci conduce nelle tensioni del villaggio, nelle sue storie, nei difficili rapporti familiari e sentimentali. È un uomo confuso, diviso anche negli affetti, devastato da un figlioletto che non parla perché traumatizzato da qualcosa di misterioso che ha visto; c’è la sua amante,Judith State, una donna proiettata nella contemporaneità e ci sono tutti gli altri. Animali Selvatici è una storia di pregiudizi, di incapacità o impossibilità di comunicazione che dal particolare, ovvero il villaggio, assume valenza universale. Mungiu procede con i suoi piani sequenza, fa crescere la tensione minuto dopo minuto; il suo film sembra un vulcano pronto a eruttare. La deflagrazione arriverà verso la fine, con un’epica scena di una riunione di tutti gli abitanti del villaggio e una allegorica conclusione nera come la pece. L’anatomia della nazione, non a caso il titolo originale è R.M.N-la sigla della risonanza magnetica in rumeno-, sarà servita in modo lucido, solo in apparenza freddo. Ottimo tutto il cast con una nota di merito per la prova di Judith State, molto brava nella parte dell’amante in uno dei film migliori, se non il più completo, di questo grande autore.

C’è ancora domani, ovvero un grande boh

C’è ancora domani di Paola Cortellesi con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Giorgio Colangeli. Candidature ai David di Donatello a iosa. Premi raccolti un po’ovunque. Critica unanime nel definirlo un film eccellente. Confesso il mio scetticismo. C’è ancora domani è un film carino ma poco altro. A volte persino scontato e parecchio noioso.In Italia nel 2023 ne abbiamo visti di migliori. Ma evidentemente attorno a Cortellesi, al suo manifesto femminista sull’Italia dell’immediato dopo guerra-i mariti sono violenti, le mogli vittime e prive di diritti, i matrimoni si combinano, la miseria impera- i salotti dei birignao si sono riuniti e ne hanno decretato l’incoronazione senza se e senza ma. Non posso che cospargermi il capo, fare penitenza, ma dalla mia idea non mi sposto. Film sufficiente, ben recitato-neorealismo e Pasolini erano e sono altra Cosa con la c maiuscola- ma il resto mi fa esprimere un grande, immenso, tristissimo boh.

Un colpo di fortuna: carino ma Woody Allen ha perso mordente

Un colpo di fortuna di Woody Allen con lou de Laâge,Melvil Poupaud. Con un bel sottofondo jazz, Allen vola a Parigi per raccontare a modo suo le tradizionali dinamiche sentimentali e le casualità esistenziali che ormai da sempre riempiono la sua cinematografia. L’inizio del film e il suo iniziale svolgimento sono fiacchi:c’è la giovane sposa di un affarista milionario che incontra un vecchio compagnodi scuola. Scontata la loro storia d’amore così come la gelosia del marito. Il tutto evolverà in insani progetti di omicidio e della ricerca della verità. Il <<vecchio>> Woody si salva a poco a poco, inserendo per davvero la casualità che darà una forma concreta a questa opera, molto apprezzata dai critici ma tutto sommato debole se confrontata con i lavori migliori del regista. Bravissimi in ogni caso de Laâge e Poupaud e come sempre magistrale l’ambientazione.

Gran Turismo: film o videogame?

Gran Turismo di Neill Blomkamp con Orlando Bloom,David Harbour, Archie Madekwe. La storia del pilota automobilistico Jann Mardenbourough intrecciata con quella del videogame prodotto dalla Sony, trasformata in film. Chiaro l’intento promozionale per promuovere Gran Turismo, il simulatore motoristico più popolare al mondo. La carriera del giovane pilota gallese, infatti, è iniziata e si è evoluta grazie all’intuizione del marketing della Sony di selezionare i migliori piloti virtuali e di farli debuttare in corse autentiche. Il film ha una trama elementare in cui si segue la crescita agonistica e umana di Mardenbourough. Tutto è all’insegna dello spettacolo per lo spettacolo, di effetti speciali, di commistione tra realtà e virtuale. Sul fronte della sceneggiatura ci sono nefandezze assortite, errori madornali dovuti a una evidente non conoscenza del motorsport e delle varie categorie. Il resto è roba da adolescenti. Su Prime Video.

The Covenant, adrenalina di classe made by Guy Ritchie

The Covenant di Guy Ritchie con Jake Gyllenhaal e Dar Salim. Non ci posso fare nulla ma i film di Guy Ritchie mi piacciono anche quando il regista inglese si avventura in territori che non batte spesso. Qui siamo nell’Afghanistan del 2018. L’amicizia tra un sergente e un interprete locale finiti nella morsa dei talebani. L’interprete porta in salvo il sergente ferito in una imboscata mortale. Questo, una volta rientrato negli Usa, sente il peso morale di ciò che è stato e soprattutto l’obbligo di fare di tutto per assicurare all’interprete, divenuto nel frattempo il ricercato numero 1 dei talebani, e alla sua famiglia un visto per l’america e una fuga sicura dall’Afghanistan. Ritchie ambienta il suo thriller guerresco seguendo i ritmi e la lezione degli action movies di genere, lasciando lo spettatore in apnea per oltre due ore. Le riflessioni profonde sulla guerra e sul significato del dovere etico non vengono appesantite dallo svolgimento: c’è solo una parte in cui l’autore britannico calca forse troppo la mano, lasciandosi andare a inutili tentativi di introspezione del suo protagonista-un perfetto Jake Gyllenhaal– dopo una prima parte sorbita tutta d’un fiato. Ma, eccetto questo inutile orpello più estetico e di virtuosismo tecnico che di contenuto, il film riprende vigore nel momento in cui lo script riporta i propri eroi all’interno dell’incubo talebano. E allora la suspence per come andrà a finire torna a essere il leit motiv di The Covenant. Distribuito e visibile su Prime Video, il film è un’opera riuscita e credibile. Omaggio ai tanti interpreti afghani trucidati e costretti alla clandestinità che collaborarono con gli americani e le truppe alleate nell’inutile campagna dei vent’anni, The Covenant è stato girato vicino ad Alicante in Spagna. Là Ritchie ha ambientato il suo Afghanistan personale che risulta assai simile all’originale. Ottimo il cast. Oltre al già citato Gyllenaal, è molto bravo Dar Salim ed intenso anche se breve il ritratto della moglie del protagonista offerto da Emily Beecham. Da vedere su Prime.

L’ultima notte di Amore o di un fascino strampalato

L’ultima notte di Amore diAndrea Di Stefano con Pier Francesco Favino. Film di genere, tecnicamente perfetto, fascinoso al punto giusto per mantenere il contatto con una storia strampalata e una sceneggiatura che fa acqua in parecchi punti. L’ultima notte del poliziotto Franco Amore prima della pensione si trasforma nella tragedia di un uomo impotente contro eventi più grandi di lui. Il poliziotto accetta un lavoro sporco da parte di una gang cinese. Coinvolge un suo collega ma le cose non andranno come previsto. Di Stefano conosce il cinema sa come realizzarlo. Ambienta la storia in una Milano crepuscolare e notturna. La fotografa alla perfezione e confeziona l’opera come meglio non potrebbe. Riesce anche a creare la tensione, soprattutto nella scena in cui i due poliziotti devono scortare due cinesi che contrabbandano diamanti e che, contrariamente a quanto previsto, sono pedinati da qualcuno che non è d’accordo. Ma lo script crolla nel momento clou della sparatoria, rendendo i successivi tentativi da parte del protagonista di confondere le tracce e le prove alla stregua di una recita tra bambini in giardino. Da allora in poi il film stenta a riprendere vigore, salvandosi sul filo di lana con un convincente finale. Mafia cinese, n’drangheta, corruzione di poliziotti disperati perché non arrivano a fine mese sono stereotipi cavalcati da una sceneggiatura che cerca di affidarsi alla bravura di Favino per dare un senso al tutto. L’attore ci riesce solo in parte e lo stesso accade con Linda Caridi, troppo caricaturale nella parte di una giovane moglie calabrese. Alla fine il migliore è Antonio Gerardi, che della ambiguità del proprio personaggio offre un’interpretazione misurata e convincente.

Niente di nuovo sul fronte occidentale, è un ottimo film anche se….

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger. Per uno che considera Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick il miglior film sugli orrori della guerra mai realizzato, parlare di questo Niente di nuovo etc sembrerebbe un gioco da educandi. Invece l’adattamento di uno dei romanzi letti in gioventù– adoravo da undicenne Eric Marie Remarque– giunge alla stessa conclusione dell’ultra idolatrato film con lo straordinario Adolhe Menjou e il giovane Kirk Douglas. Il tema è lo stesso: la vacua ottusità di chi ha il potere di decidere, la massa utilizzata come animale da macello. Berger spoglia il libro di Remarque, indugiando soprattutto sulle scene di guerra ma mantenendo il nucleo del discorso dello scrittore. Ci riesce, pur se l’orrore della trincea a volte sembra essere figlio di un compiacimento della regia. Una scelta, condivisibile o meno, che in ogni caso non inficia il significato che giunge diretto e potente. Onore al merito, dunque, a una regia solida, capace di portare alla crescita il film nella seconda parte. Bravissimi tutti gli interpreti e Oscar al miglior film straniero del 2022 troppo generoso.

Parigi,13imo Arrondissement, Audiard in chiaroscuro

Parigi, 13imo Arrondissement di Jacques Audiard con Makita Samba, Emilie Wong, Noémie Merlant, Jehnny Beth. Il titolo originale è Les Olympiades perché il film è stato girato nell’omonimo quartiere residenziale parigino, composto da 12 torri realizzate tra la fine degli Anni’60 e il 1974. Jacques Audiard innesta nella fredda architettura di una Parigi che pare estranea all’iconografia della capitale francese la storia di quattro giovani, un professore di lettere, una ragazza cinese laureata in scienze politiche, una fuori corso universitaria e una cam girl, ognuno dei quali cerca, non trovandola, la propria missione esistenziale. Tutto è all’insegna della precarietà sentimentale e professionale. Come sempre gli accade Audiard segue le vicende dei quattro protagonisti lasciandoli vivere negli spazi di un quartiere di cui sono l’esatto terminale. È una storia di ricerca affannosa di relazioni umane e contatto fisico, di insicurezza sociale che sconfina nella superficialità di ogni rapporto. La splendida fotografia in bianco-nero– a colori ci sono solo le scene che riguardano la cam-girl-e un canovaccio che ci riporta ai tempi della nouvelle vague, non a caso Audiard dichiara di avere preso lo spunto dal rohmeriano La Mia Notte con Maud, consentono a uno tra i migliori autori del cinema francese di non appensantire la profondità del discorso con il superfluo. Alla fine Les Olympiades e il suo disincantato quanto amaro discorso sull’incapacità della gioventù piccolo borghese di vedere prospettive coglie nel segno più per il ritmo che per la novità della riflessione. Dall’autore di alcuni dei moderni capolavori francesi-da Sulle mie labbra a Tutti i battiti del mio cuore, da Il Profeta a Un Sapore di di ruggine e ossa fino all’interessante I Fratelli Sisters-ci saremmo forse aspettati di più. Bravi e credibili gli interpreti che nel film si incontrano, si dividono, si ritrovano, cercano di cambiare e forse ci riusciranno fino alla prossima divisione.

Non così vicino, piacevole scontatezza

Non Così Vicino di Marc Forster con Tom Hanks, Truman Hanks, Mariana Trevino. Remake del recente Mr.Ove si regge sulla interpretazione di Hanks nella parte del burbero perché devastato dal dolore mr. Anderson. Per il resto il film è prevedibile nella trama e nello sviluppo, facendo l’occhiolino alle tematiche lgbt, agli immigrati-qui messicani, in Mr.Ove iraniani- alla prepotenza delle agenzie immobiliari. La parte migliore, però, riguarda ancora Hanks che penetra nel personaggio in modo totale stando lontanissimo dalla caricatura e disegnando innumerevoli componenti psicologiche. Buona la prova generale del cast-c’è spazio anche per il figlio di Hanks, Truman- e attenta la regia di Forster(Monster’s Ball il suo apogeo), come sempre molto delicato nel seguire i protagonisti. Niente di eccezionale ma da vedere per trascorrere un paio d’ore senza pensieri.

Doppio Amore, forse il miglior film di Ozon

Doppio Amore di Francois Ozon con Jérémie Renier, Marine Vacth. Grandissimo film sul doppio e sulle turbe interiori. Come un gioco di specchi, Ozon porta in scena il racconto Vite dei gemelli della statunitese Joyce Carol Oates, creando un’opera ipnotizzante che fa resuscitare illustri inconsci parallelismi cinematografici, estetici e di contenuto. L’autore francese non si e non ci fa mancare nulla per creare la tensione che sale fino all’estremo nelle quasi due ore della durata. Una venticinquenne afflitta da dolori al basso ventre decide di andare da uno psicanalista convinta di avere un problema legato al suo stato esistenziale di giovane senza una occupazione e senza affetti. Le sedute faranno scattare seduzione e amore fino a quando la ragazza non scoprirà che a Parigi lavora un altro psicanalista, gemello del primo. Ozon realizza un film visionario di altissimo livello, sfruttando appieno la bravura e il magnetismo di Marine Vacth e la consueta sagacia interpretativa di Jéremié Renier che si sdoppia. Doppio Amore è film che inizia come semplice e scontata storia d’amore per trasformarsi poi in una discesa nei meandri psicologici della protagonista. Tra specchi che si rompono, ricerca di verità, gatti che scompaiono, inquilini impiccioni, Ozon inganna con la finzione avvertendo in ogni caso del suo gioco gli spettatori. Perfetto nell’estetica, nella recitazione, nel contenuto: nel 2017, quando uscì, non ebbe successo, nemmeno di critica. Rivederlo ora è utile per capire cosa è il vero cinema.

O Que Arde, il fascino della lentezza

O Que Arde di Oliver Laxe con Benedicta Sánchez e Amador Arias. Un film di trascinante lentezza che nel 2019 confermò le qualità del regista francogaliziano Oliver Laxe. Un piromane torna a casa dopo due anni di carcere in un piccolo paesino della Galizia. La sua casa è isolata da tutto il resto ed isolato è il suo quotidiano consumato con l’anziana madre e fatto di vacche al pascolo e osservazione della natura selvaggia del luogo. Pellicola di pochissime parole e molti sguardi: la cinepresa penetra nelle espressioni e negli occhi dei due straordinari attori, non professionisti, mostrando da un lato il rapporto di amore profondo tra i due e il senso di latente vergogna per il suo passato di lui. È solo la natura a potere proteggerlo. Ma arriverà un incendio, devastante. O Que Arde è splendido esempio delle tendenze di molti autori delle nuove generazioni. Il contenitore, ovvero il paesaggio, le foreste, le stalle, l’incendio, diventa contenuto e protagonista. Il film si apre con ruspe che abbattono una foresta e si chiude con le fiamme e lunghe sequenze di un vero incendio, talmente importanti da sembrare un quadro. Il fuoco come metafora anche di un pregiudizio. In Italia avrebbe potuto girarlo Angelo Frammartino, la cui poetica è similare almeno per quanto riguarda le sue prime opere. Laxe si affida a Sánchez, premiata con un Goya, e a Arias, 83 anni lei, ex guardia forestale lui: sono talmente bravi e convincenti alla loro prima esperienza cinematografica da sbalordire. Tutti recitano in lingua galiziana O Que Arde, premiato al Certain Regard di Cannes nel 2019, è un film da vedere e recuperare. E non solo perché alimenta la voglia di visitare la Galizia.

Steel Flower, poetico e potente con un finale da ricordare

Steel Flower di Park Suk-young con Jeong Ha-dam. Camera in spalla, inquadrature nervose; poche, pochissime parole, quasi assenza di dialoghi. Non servono per descrivere la vita di una ragazza ai margini che cerca ripari di fortuna a Busan e soprattutto un lavoro che le permetta di sfamarsi. È homeless. La viviamo nel suo presente mentre ruba gli avanzi della cena nei ristoranti o entra in negozi per presentarsi come candidata nelle funzioni più umili possibili. Gira con un trolley, dove ci sono solo cose che le possono servire. È sempre rifiutata, perché non ha numero di telefono, è un nessuno e non parla. Si porta appresso il peso di una tragedia e di una fuga. Le rare volte che riesce ad avvicinarsi alla sopravvivenza viene cacciata per colpe non sue e ingannata. Il suo sogno: ballare il tip tap come forma liberatoria. Ci riuscirà in un finale dalla doppia interpretazione. Uno dei più belli visti al cinema negli ultimi anni. Potentissimo con il mare in burrasca e i tentativi della ragazza di accennare passi di danza. Rabbiosi. Il film è ipnotico. Park Suk-young segue, in parte, lo stile di Kim Ki-duk per questa sua seconda opera che fa parte di una trilogia intitolata appunto Flower. Il suo fiore d’acciaio brilla per conentuti, grazia, poesia. Cade nell’ultima parte con una scena madre eccessiva ma riprende alla svelta la retta via. Bello il contrasto di colore che viene usato e perfetta l’interpretazione di Jeong Ha-dam, lanciata nella cinematografia sudcoreana proprio da questa trilogia che segue le vicende del suo personaggio. Da vedere. Il film si trova in rete. Il precedente Wild Flower e e il successivo Ash Flower, invece, sono difficili da reperire. Ma….ci riusciremo.

Overdose, adrenalina francese senza qualità

Overdose di Olivier Marchal. Prodotto e distruibuito in streaming da Amazon Prime nel novembre 2022 è un film che nulla aggiunge ai block busters adrenalitici, realizzati più che altro per far trascorrere un paio d’ore divertenti a un pubblico che si accontenta di poco. Sotto quest’ottica Overdose non tradisce, anche se è pieno di incongruenze e di una trama in molte parti fragile. Viene salvato dalla buona interpretazione d’assieme, su tutti Sofia Essaidi, ma offre sempre l’impressione di essere un prodotto più televisivo che altro, una sorta di Gomorra alla buona. Adatto a chi, come me, in una serata distratta aveva voglia di non impegnarsi troppo in ragionamenti vari.

Angels of Sinjar, straordinario documento sul genocidio degli Yazidi

Angels of Sinjar di Hanna Polak. Importante documento sul massacro perpetrato dai macellai dell’Isis nei confronti della minoranza degli Yazidi nei villaggi vicini al monte sacro Sinjar in Iraq. La camera della regista polacca si muove seguendo le storie di Hanifa che vuole a tutti i costi liberare le sorelle dalla schiavitù in cui sono relegate dopo il sequestro e di Saeed Murad, fratello del premio Nobel Nadia Murad, che dopo aver perduto quasi interamente la propria famiglia è andato a combattere. Tra villaggi distrutti, fosse comuni, scopriamo un mondo dove la violenza travestita da fanatismo religioso non si arresta nemmeno di fronte ai bambini e alle ragazze. Con grande pudore Polak fa parlare le vittime di questa assurdità, ci introduce in un mondo ai più sconosciuto, raccapricciante senza bisogno di proclami o di chiamate a correo. E, con la viva voce di una testimone attiva ci mette in guardia sul futuro di una generazione: il lavaggio del cervello perpetrato dall’Isis potrebbe creare altri mostri in futuro. Gli Yazidi sono un’etnia curda che ha una propria religione monoteista complessa, tra il pagano, l’esoterico e il fantasioso, che ha pochissimi punti di contatto con le dottrine arabe. Per questo vengono considerati infedeli. L’opera dura 148′. Ma servono tutti per capire che il peggior mondo possibile esiste ancora.

El Gran Movimiento, realismo magico a La Paz

El Gran Movimiento di Kiro Russo. Vincitore di un premio speciale della giuria agli Orizzonti veneziani del 2021 è un film strutturato come se fosse un documentario. Russo muove la camera per le strade maleodoranti e fatiscenti di La Paz, seguendo le tribolate vicende di un minatore che giunge nella capitale boliviana per trovare lavoro. C’è l’ombra di una misteriosa pandemia che grava sulle vite di ognuno, c’è un ritratto che sa di vero documento sulla capitale boliviana. L’occhio della cinepresa vaga dal centro della città, risalendo verso la zona più povera dei barrios, El Alto, una città nella città, dove si dorme accampati all’addiaccio, riparati sotto tende di fortuna o dalle lamiere di un mercato. E sopra El Alto esiste un mondo altro, quello delle colline che guardano verso il complesso dell’Illimani. Tra vegetazione selvaggia, rifugi tra gli alberi, si aggira un misterioso individuo che vede vede oscure presenze e scende in città per donare la propria magia al minatore morente. Kiro Russo è bravissimo a bilanciare questo rapporto tra cruda realtà e surreale. Applica la lezione documentaristica del filippino Lav Diaz seguendo nel contempo modelli che si rifanno ad altro cinema come quello del thailandese Apichatpong Weerasethakul o dell’italiano Giuseppe M. Gaudino con il suo straordinario Giro di lune tra terra e mare. È realismo magico che spiega senza ausilio delle parole la lotta per la sopravvivenza in una nazione dove la povertà resta ancora una ferita aperta, nonostante la recente crescita economica boliviana. Bellissimi piani sequenza su La Paz, l’alternanza di luce e buio, l’improvviso palesarsi della fiction all’interno del documento. Esiste qualche forzatura ma va perdonata. Mi è piaciuto molto. Adatto a chi è curioso di scoprire cosa c’è oltre il mondo conosciuto.

Nowhere Special, il cinema delicato di Uberto Pasolini

Nowhere Special di Uberto Pasolini con James Norton e Daniel Lamont. Doverosa premessa: l’opera non merita di essere congendata in poche righe. Se si trova in questa sezione è solo perché è stata vista a distanza di molti mesi dalla sua uscita. Fin dall’apertura il film di Uberto Pasolini sembra offrire un contrasto netto tra l’azzurro del cielo, dei manifesti incollati ai muri, dei particolari e il paesaggio anonimo della periferia di Belfast. È il mondo della working class dove ci si arrangia con dignità per sbarcare il lunario. In questo contesto Pasolini mette in scena la vicenda di un lavavetri malato terminale che cerca una futura famiglia per il proprio bambino. Anche qui come nell’eccellente Still Lifehttps://guidoschittone.com/quanta-luce-ce-in-quella-natura-morta/– vita e morte si incrociano ma se nel film che vinse gli Orizzonti veneziani del 2013 la seconda diventava la giustificazione della prima in Nowhere Special è l’esistenza a tramutarsi in puro atto d’amore tra padre e figlio.Film vitale, dove l’impotenza determinata dal destino diventa occasione per regalare futuro e memoria a chi si sta affacciando alla vita stessa. Pasolini trae spunto da una storia vera scovata su un quotidiano per costruire un film bellissimo fatto di sguardi in cui James Norton giganteggia e il bimbo Daniel Lamont offre un’espressività che non ha bisogno di troppe parole. Avrebbe potuto essere un’opera redditizia per i venditori di fazzoletti. Invece Uberto Pasolini sta ben alla larga dal rischio, concentrandosi, più che sulla storia in sé stessa, sugli aspetti interiori, sul tumulto di un uomo giovane che sta per morire. Sono bandite le scene ospedaliere-nell’unica Norton accenna a un sorriso- medici, referti, dimagrimenti e via dicendo. Né storie sentimentali o potenziali vedove che piangono. Allo struggimento ci si arriva non in modo artificioso ma attraverso la doverosa spoliazione di ogni potenziale occasione di deriva spettacolare. Fortissima è la contrapposizione tra la freddezza degli esterni e il calore che emanano i due protagonisti. La scena clou è quella relativa alla scatola dei ricordi. Non una lacrima, non un’ostentazione ma solo il volto di Norton che da solo spiega più di mille scene madri. Esempio di cinema intelligente, Nowhere Special consacra, se mai ce ne fosse stato bisogno, uno degli autori più originali del nostro cinema e indica in Norton un attore di enorme potenziale. Film bello, capolavoro di grazia e delicatezza. Da vedere e da ricordare.

The 12th Suspect, ancora una volta la Corea riflette sui propri incubi

The 12th Suspect di Ko Myoung-sung. Un sergente dei servizi sudocreani penetra in una casa da caffé frequentata da artisti per indagare su un omicidio di un poeta e di una vivace studentessa. La costruzione del soggetto inganna. Sembra infatti cinema da camera, traslato dal teatro ma ben presto gli spettatori iniziano a non perdere battute, ragionamenti dei vari personaggi in scena. Ko Myoung-sung si affida a un magistrale uso del colore, a pochissimi esterni, e a una falsa indagine stile Agatha Christie per addentrarsi nella ferita mai rimarginata della guerra e della divisione sud e nord. Dopo i primi trenta minuti preparatori con la presentazione dei personaggi in scena, ognuno dei quali carico di ambiguità, sergente compreso, The 12th Suspect esplode letteralmente attraverso una violenza psicologica, a volte anche fisica, in cui l’incubo del comunismo è solo il fattore decorativo per mettere in luce le contraddizioni sudcoreane contemporanee. Siamo a Seoul nel 1953 ma potremmo essere nell’oggi. Gli artisti della Sala orientale del Caffé hanno tutti un conto aperto con il passato e con l’irrisolutezza della propria condizione. Il regista dirige con pugno fermo affidandosi a un soggetto dove l’esaltazione dei contrasti -mai schematici-produce alla fine una zona grigia. Così la riflessione si sposta anche sul rapporto corrotto tra arte e politica, sulle scelte dettate dalla sopravvivenza necessaria, sulla labilità delle ideologie. Il cast è perfetto, con Kim Sang-kyung, interprete tra gli altri dello splendido Memories of Murder di Bong Joon-ho, nel ruolo del sergente. Ko Myoung-sung, che ha presentato il film nel 2019, sfrutta al massimo espressioni, linguaggio del corpo e la ristrettezza del luogo fisico per giocare con i particolari. È un altro film che in Italia è passato al Korean Film Festival ma non in sala. Per trovarlo bisogna compiere qualche giretto in rete. Non deluderà.

Kim Jong-boon di Wangshimni molto più di un docufilm

Kim Yon -boon di Wangshimniuni di Kim Jin-yeoul. Ottimo docufilm presentato fuori concorso al Feff24. Il regista segue il quotidiano della signora Kim Jong-boon madre di un’attivista studentesca morta nel corso di una delle manifestazioni del 1987 a Seoul. Il tutto si svolge in un microcosmo di cui la bancarella di frutta della signora diventa una sorta di ritrovo centrale per un’umanità variegata, amalgata da un profondo senso di dignità e collaborazione reciproca. Importante è soprattutto lo spaccato che il docufilm offre sulla vita del proletariato di Seoul, la faticosa e affannosa ricerca di un benessere equivalente alla sopravvivenza per coloro i quali, come questa madre straordinaria, hanno vissuto in prima persona tutta la storia della Corea del Sud, attraversando guerre, miserie, lotte sociali, modernizzazione. Commovente e dolcissimo.

Slingshot resta un punto fermo nella cinematografia di Mendoza

Slingshot di Brillante Mendoza. È un’opera del 2007 riproposta al Feff24 nell’ambito di un focus sul cinema filippino. La camera, nervosa, si aggira in una delle favelas di Manila dove un’umanità di esclusi vive tra furti, ricatti, droga, prostituzione e disperazione. Mendoza fa parlare esclusivamente le immagini, seguendo senza soluzione di continuità personaggi che si muovono nel microspazio fisico e sociale che sembra un girone infernale. Il film si apre con una leggendaria soggettiva di una retata della polizia e prosegue per 80′ con coerenza filmica assoluta. La finzione viene spogliata, le vite degli individui diventano soggetto e sceneggiatura. Si uniscono, si dividono, si ritrovano in un coro che non ammette alcuna salvezza futura. Splendido esempio di cinema verità e di autentica no fiction, Slingshot è girato con un effetto seppia e contiene al proprio interno alcune scene memorabili e durissime: la perdita della dentiera da parte di una giovane prostituta, una bambina che mangia le proprie feci mentre il padre si è appena fatto di droga, lo sfruttamento da parte dei politici di queste persone alle quali vengono elargite mance elettorali o favori per uscire di galera, l’accettazione della morte violenta come fatto naturale. C’è soprattutto la fotografia di una società che non può permettersi nemmeno la speranza, condannata a prescindere .

Totems, la serie spy francese nel segno della classicità

Totems di Frederic Jardin, Jerome Salle e Antoine Blossier con Niels Schneider, Lambert Wilson, Ana Girardot, Vera Kolesnikova etc. È la prima serie tv originale Amazon Prime prodotta in Francia e uscita nel maggio di quest’anno in Italia. Un ingegnere aerospaziale si trova al centro di un intrigo internazionale che vede servizi segreti francesi e Cia in lotta con KGB e esercito russo che hanno pronto un razzo orbitale capace di portare ordigni nucleari. Immancabili i continui colpi di scena, gli innamoramenti, i tradimenti, la fluidità di chi ha i piedi in due scarpe. Nei primi sette episodi la serie è brillante, poi nell’ultimo, come spesso avviene, si affloscia risolvendo la faccenda solo a metà e trovando delle scorciatoie abbastanza prevedibili per eliminare alcuni personaggi principali. Non c’è nulla di nuovo e il fatto che non si cerchi qualche soluzione strampalata è un punto a favore di Totems. Ciò che manca è un po’ di brio e di….furbizia in più per il protagonista Niels Schneider, un po’ troppo tontolone sul fronte sentimentale per i nostri gusti così come non convince la storia d’amore impossibile con la russa Kolesnikova, brava comunque a rendere l’ambiguità del proprio personaggio. Ottimo Lambert Wilson e brava Ana Girardot. Il preferito, però, è José Garcia, un eroe maledetto dal cuore grande e pieno di difetti. La serie è promossa se si cerca di passare qualche ora piacevole senza lanciarsi in voli pindarici e senza pretendere l’introspezione dei personaggi. Insomma non impegna e non esalta.

Outer Range, prima affascina poi annoia

Outer Range di Brian Watkins con Josha Brolin. Situato in una strana terra di mezzo tra il western contemporaneo e il mystery fantascientico, Outer Range dapprima affascina poi annoia. Detto così sembrerebbe una sentenza senza se e senza ma, eppure è proprio nella non-evoluzione del racconto che risiede il suo limite. Perché l’intepretazione, non solo di Joshua Brolin, è perfetta così come la capacità di inserire nell’affascinante quanto ancora selvaggio paesaggio del Wyoming-lo Stato meno popolato degli Usa- una vicenda di odio tra vicini di latifondi. Sulle prime sembra di essere in una versione riveduta e corretta di Sfida Infernale con due famiglie litigiose, quella buona che però si macchia di un omicidio, e quella perfida, dove comunque esistono molte criticità anche psichiche al proprio interno. Se fosse andata così non sarebbe stata una cattiva serie. Purtroppo nella trama viene inserita una strana porzione di terreno che in in realtà è un black hole che risucchia i protagonisti e li lancia in una differente prospettiva temporale. Così tra il dilemma se sono in realtà dei morti che rammentano o dei vivi in preda a qualche allucinogeno, Outer Range inizia proprio a fare come il buco nero con gli spettatori restando lì in un prevedibile sviluppo in cui tritura il divertimento modificandolo in calma piatta. Molti lo hanno paragonato a un moderno Twin Peaks e a tal proposito penso sia in arrivo una bella diffamazione da parte di David Lynch in persona. Si confida in una seconda serie, almeno per consentire a Brolin, Lili Taylor, Tom Pelphrey, Lewis Pullman e compagnia di esprimere il proprio potenziale recitativo con un script che abbia un minimo di logica senza l’ansia di voler scimmiottare cose già viste e digerite. Su Prime in otto episodi. Dal quinto in poi succede poco o nulla.

Noise, nulla di nuovo nella trasposizione di un manga

Noise di Ryuichi Hiroki. Presentato al Far East Film Festival 2022 questo fin troppo lungo noir giapponese è tratto da un manga di Tetsuya Tsutsui. Sarà il fatto che non amiamo troppo i manga ma Noise non aggiunge nulla di nuovo. C’è in ogni scena qualcosa che rimanda ad altro ed anche la sceneggiatura è sufficientemente scontata, veleggiando tra il grottesco, il divertito e il grand guignol. C’è un’isola dove la felicità sembra essere una serra uguale a quella in cui vengono coltivati preziosi fichi neri. A spezzare l’artificiale equilibrio giungeranno due estranei che faranno una brutta fine e daranno inizio a una serie di altri omicidi. Tra improbabili detective e poliziotti, finzioni e menzogne, Hiroki sembra chiamare a correo un’intera nazione che si chiude a riccio per celare nefandezze e peccati. C’è un po’di Haneke, ci sono i sentimenti segregati per anni che deflagrano nell’invidia e nel tradimento in un mix che alla lunga annoia pur nella professionalità della confezione. Eine Kleine Nachtmusik è sfruttato come colonna sonora.

Un Extrano Enemigo, la serie che Prime dovrebbe esaltare

Un Extrano Enemigo(serie tv) di Gabriel Ripstein. Ci sono vari modi di raccontare la storia con la Esse maiuscola. Questa serie che all’estero Prime ha messo in onda nel 2018 e che è presente, non doppiata, anche nel bouquet italiano, è un ottimo esempio di come si dovrebbe fare. Perché Un Extrano Enemigo penetra nel 1968 messicano raccontando i motivi e come si giunse alla strage degli studenti universitari dell’UNAM a Tlatelolco il 2 ottobre-si parla di almeno 300 morti- attraverso una finzione che vira prepotentemente verso la realtà. Una precisa e quasi maniacale ricerca esegetica ha permesso agli sceneggiatori di creare personaggi copie carbone dei politici messicani dell’epoca, dal presidente della Repubblica Diaz Ordaz all’allora segretario agli Interni Luis Echeverría, da Martinez Manatou a Corona de Rosal per arrivare al rettore dell’UNAM Barros Serra. Sopra di loro, forza trainante della narrazione l’oscuro responsabile dei servizi segreti Fernando Barrientos, trasposizione cinematografica di Fernando Gutierrez Barrios. Ripstein muove questo personaggio ambizioso, assetato di potere, privo di alcun scrupolo morale, nei meandri di Città del Messico nell’anno delle Olimpiadi. È lui il deus ex machina che crede di manovrare i manovratori, impegnati nelle lotte clandestine sulla prossima elezione del presidente della Repubblica e la salvaguardia della cerimonia inaugurale dei giochi olimpici. Così la fiction illumina uno degli episodi più truculenti della storia di Città del Messico durante otto puntate in cui la violenza fisica diventa gelida conseguenza di quella morale e psicologica e gli studenti andranno a pagare con il sangue i giochi di potere di chi è sordo a qualsiasi ideale di democrazia e di modernità. In Un Extrano Enemigo c’è davvero tutto, persino il coinvolgimento della CIA, il fuoco amico, i tradimenti continui, le infiltrazioni. C’è la storia di quel Messico che già in Roma Alfonso Cuaron aveva posto sotto la lente d’ingradimento, anche se parlando del secondo fatto di sangue che nel 1971, il 10 giugno, portò ad altri studenti uccisi nel massacro di El Halconazo. E c’è soprattutto una narrazione che avrebbe fatto la gioia di Elio Petri e che mi ha ricordato il modo di girare e di indagare i personaggi del cileno Pablo Larraín. La sceneggiatura è perfetta, ferma, rigorosa e fa sì che la tensione aumenti puntata dopo puntata, senza mai ricorrere a facili mezzi o a violenza gratuita . Mattatore della serie è l’attore messicano Daniel Gimenez Cacho, preciso e algido nelle proprie decisioni, simbolo della perdita di ogni scrupolo morale in nome più che della ragion di stato dell’ingordigia, machiavellica, del burattinaio del potere. Il mistero riguarda il fatto che Prime, nonostante il grande e meritato successo di Un Extrano Enemigo nei paesi latini e non solo, non lo proponga in versione italiana, attribuendogli lo spazio anche promozionale che meriterebbe. Invece lo abbiamo scovato in mezzo al bouquet, buttato lì a caso. La speranza è che si possa rimediare in vista della seconda stagione della serie in cui l’oscuro funzionario Fernando Barrientos proseguirà la propria scalata verso un effimero successo. Quando la finzione si supera e diventa approfondimento storico.

Nuestro Tiempo, piaccia o no è un grande film

Nuestro Tiempo di Carlos Reygadas con Carlos Reygadas e Natalia Lopez. << Vecchio>> ma …senza tempo questo film che il messicano Reygadas dirige e interpreta con la bella moglie Natalia López, presentato a Venezia nell’ormai lontanissimo 2018.La coppia è aperta, o meglio il marito accetta le fughe sessuali della moglie fino a quando le cose cambiano. È un dramma della gelosia in cronaca lungo quasi tre ore? No, piuttosto è una allegoria del mestiere del regista. La gelosia è solo il grimaldello per penetrare nell’ansia di controllo delle vite altrui da parte del protagonista. Reygadas inscena la vita reale di una coppia, la sua, facendo di questa un film vero e proprio, trasformandola quindi in pura finzione. Lui è un poeta che alleva tori. Lei si invaghisce di un cow boy americano e inizia a raccontare bugie al marito. Il rapporto di coppia diventa guerra, introspettiva, asfissiante per l’uno e per l’altra. Il cinema è lo spazio in cui vengono inseriti improvvisi confini psicologici e fisici. Alcune allegorie sembrano scontate e gratuite, quelle riguardanti i tori soprattutto, altre restano nella memoria. Indimenticabile l’occhio della camera che penetra il motore di un pick up in movimento o sorvola, dal carrello di un aereo, Città del Messico. Piani sequenza importanti, recitazione perfetta, lunghezza che non tramortisce. È cinema che può anche essere odiato e forse per questo lo amo. Reygadas dice che un film non è un romanzo. Ha ragione ma Nuestro Tiempo va assunto proprio come un libro. Va sfogliato, gustato, sequenza dopo sequenza. E alla fine uno potrà domandarsi che senso abbia avuto l’essere rimasti lì a osservare il guerreggiare di Juan e della ribelle Esther: quello della vita.

Nuevo Orden, Leone d’Argento sopravvalutato

Nuevo Orden di Michel Franco.Leone d’Argento-Gran Premio della Giuria nella mediocre selezione veneziana del 2020 è un film sopravvalutato che piace soprattutto a chi divide il mondo in bianco e nero. L’incipit e la parte iniziale sono ottimi, con una bella festa di matrimonio in un quartiere dell’alta borghesia messicana in cui il regista-che ha grande talento-apparecchia i prodromi di ciò che avverrà poco dopo. Purtroppo il virtuosismo si ferma alla estetica e a quei primi minuti. Tutto il resto è lotta di classe che sfocia in un grand guignol dove anch’essa viene annullata. Tutto gira attorno alla violenza per la violenza in modo molto scontato e didascalico. A Michel Franco manca totalmente la visione ballardiana di andare alle radici dello scontro, alle motivazioni profonde e la capacità di addentrarsi nei suoi personaggi che diventano macchiette utili solo a riempire di prevedibilità una storia sgangherata. Poteva essere Millennium People(per la cronaca il terzo romanzo della tetralogia urbana di Ballard)riveduto e corretto in salsa messicana e con diverse motivazioni sociali, là era la medio borghesia ad essere alla frutta, si trasforma invece in puro esercizio stlistico che nulla dice e aggiunge alla cinematografia del suo regista.

À Jamais, ottima trasposizione di Body Art

À Jamais, di Benoit Jacquot con Julia Roy e Mathieu Almaric. Body Art è uno dei romanzi più intimi e ipnotici di Don DeLillo. L’azione si svolge nell’animo e nella psiche della protagonista, all’interno del suo appartamento. Ci sono misteriosi rumori che si palesano giorno dopo giorno. C’è soprattutto l’assenza-presenza di un amore scomparso e la (ri)creazione di un alter ego attraverso cui rielaborare il lutto. È un libro anche sul tempo, sullo spezzarsi della relazione tra passato e presente Trasportare al cinema una storia simile, fatta di piccoli gesti e di subbuglio interiore, è difficilissimo. Jacquot ci riesce in questo film del 2016 ma gran parte del merito va alla protagonista femminile Julia Roy che oltre a recitare-bene- adatta in sede di scrittura il romanzo cercando di coglierne il senso. L’azione viene ambientata in una vecchia villa francese; Almaric, come sempre in gran forma, interpreta il marito della donna. Ho amato À Jamais e quindi la sua sceneggiatura, perché mi ha riportato all’essenza di un libro meno conosciuto di altri dello scrittore statunitense ma che considero dopo Underworld il suo migliore. Il film si prende le pause necessarie, il silenzio avvolge lo sguardo magnetico di Julia Roy e a parlare è come se fosse realmente il suo subconscio. Non tutti lo hanno apprezzato. Per goderlo appieno bisognerebbe immergersi nelle pagine di Body Art, pubblicato da Einaudi nel 2001. E allora il giudizio cambierebbe. Il fatto che sia uno dei miei romanzi preferiti non ha influito sul giudizio dell’opera di Jacquot: intelligente e rispettosa. Più che promossa.

Mountain, un’ebrea ortodossa divisa in due

Mountain, di Yaelle Kayam.Tvzia vive con il marito insegnante di talmud e i figli in una casa a lato del cimitero ebraico del Monte degli Ulivi di Gerusalemme. Di giorno si aggira tra le tombe, fermandosi spesso vicino a quella di una poetessa. Ha una vita monotona, scandita dall’assenza di passione del marito, impegnato a studiare i testi sacri, e da un quotidiano sempre uguale. L’unico fugace confronto umano che ha è con un addetto arabo alla manutenzione del cimitero. La visione notturna di prostitute che accolgono i clienti tra le tombe fa scattare in lei la legge del desiderio ma nonostante i tentantivi non riuscirà a scaldare il rapporto coniugale. Preparerà una atroce vendetta i cui effetti la regista lascerà in sospeso: chi saranno le vittime? Il film della Kayam è interessante: pone l’accento sulla condizione delle donne all’interno del nucleo famigliare degli ebrei ortodossi e sui fantasmi che agitano gli individui. Il tutto senza alcuna concessione ai pruriti. La doppiezza di Tvzia traspare in modo evidente dagli esterni: luminosi di giorno, cupi quando arriva la notte. Importante l’ interpretazione di Shani Klein che si fa carico di far intuire e non mostrare i propri tormenti. Mountain scandisce con lentezza e precisione il trascorrere del tempo di chi si sente recluso, imprigionato anche in un corpo possente mentre l’anima vorrebbe andare verso la leggerezza. Il finale non offre spiegazioni. È lasciato alla libera interpretazione degli spettatori. Quale sarà stata la scelta di Tvzia? Estirpare il sacrilegio o la famiglia? Non lo sapremo mai. Ma il finale non è un limite del film, anzi.

Dogs, convince il noir rumeno

Dogs-Caini di Bodgan Mirica. Viene dalla Romania questo bel film lanciato al Certain Regard di Cannes 2016 che segna il debutto nel lungometraggio di Bodgan Mirica. Il nipote riceve in eredità 550 ettari di terra dal nonno. Scopre in questa regione ai confini dell’Ucraina che sembra dimenticata dagli uomini che quei campi celano violenza e affari loschi. Per questo vuole venderlo. Un piede spunta da uno stagno, misteriose e improvvise sparizioni confermano i sospetti di un poliziotto malato terminale nei confronti di coloro che erano alle dipendenze del nonno. Mirica crea un western contemporaneo dove nessuno si salva e la legge dell’efferatezza domina la scena. Corruzione, attaccamento alle radici rurali, ansia di denaro, tradimenti diventano il leit motiv di un soggetto che non fa perdere attenzione nemmeno per un minuto agli spettatori. Ironico, a volte compiaciuto, debitore di altri modelli, Dogs non lascia indifferenti e dimostra le potenzialità di un autore che sa proporre un differente tipo di discorso cinematografico rispetto ai suoi illustri connazionali. Da vedere.

Questo Suspiria a noi piace

Suspiria di Luca Guadagnino. L’anti remake di Guadagnino o lo si ama o lo si odia. Non possono esistere mezze misure, perché questo film è estremo in ogni particolare, delirante con logica, esteticamente bellissimo, citazionista con quei rimandi spontanei e istintivi che provengono dal substrato psichico che ognuno di noi si porta appresso più o meno inconsciamente. Ho adorato questo Suspiria e persino amato Dakota Johnson che messi da parte i pessimi eroticharmony (tra film e saga libresca non si sa quali siano i peggiori) delle 50 Sfumature qui firma una prova d’attrice più che importante che avrebbe meritato parecchie citazioni mai arrivate. Assieme a The Neon Demon di NWR e alla Casa di Jack di von Trier è il film più ipnotico visto negli ultimi quattro anni.La personalità non si acquista al supermercato. Guadagnino la possiede. E a me sta bene così.

Them tra horror e indagine sociale

Them(serie tv) di Little Marvin. La serie televisiva presentata in tarda primavera in versione originale e poi in luglio in italiano da Amazon Prime riprende l’estetica dei contrasti, cara a molti autori statunitensi con un mondo diviso tra i colori a pastello del lussuoso quartiere dei bianchi e le tinte oscure che circondano l’esistenza dei neri. Siamo nel 1953 in pieno clima di leggi razziali: un giovane ingegnere di colore si trasferisce con moglie e figlie dalla North Carolina a Compton, all’epoca sede di residenze della emergente borghesia californiana. Gli Emory diventano gli unici abitanti neri del quartiere, creando la reazione di una società perbenista, dietro cui si nascondono vizi privati, esistenze infelici, violenza, superficialità. Non è che gli Emory siano messi meglio:ci sono traumi da superare. La guerra che non si dimentica, la perdita misteriosa di un figlio, i problemi psicologici della moglie. Marvin riprende stilemi già visti con grande professionalità e gusto. Costruisce una favola amarissima che tiene con il fiato sospeso per tutte le dieci puntate della serie. Funzionano benissimo l’indagine su una società malata , il clima claustrofobico e violento in cui si cerca di emarginare ed eliminare-anche fisicamente- gli intrusi di colore. Qualche perplessità, invece, la nutro per il mix con il lato horror. Se all’inizio tutto è controllato e bilanciato, verso la fine l’autore cerca soluzioni poco credibili e abbastanza semplicistiche , rischiando di vanificare il lato dark con il grand guignol. Ma la serie è una delle migliori viste su Prime nel 2021 anche grazie a un cast formidabile. Bravissima Deborah Ayorinde e non da meno è lo splendido personaggio della perfida ma combattuta e traumatizzata casalinga bianca interpretato da Alison Pill. Un cenno anche all’importanza delle musiche che rafforzano il significato scenografico e dei contenuti. Them proseguirà con una seconda stagione. Non vedo l’ora che venga prodotta, perché migliorando appunto l’amalgama tra horror e aspetti psicologici potrebbe diventare perfetta.

Come la Spagna sconfisse l’Eta

El Desafio:ETA(serie tv). 853 morti senza alcuna distinzione tra bambini, donne, persone comuni e esponenti della Guardia Civil. Oltre 2500 feriti, molti dei quali mutilati non solo psicologicamente per tutta la vita. Una scia di terrore che ha devastato la Spagna dal 1968 al 2009. Questo ottimo docufilm in otto puntate, trasmesso da Prime, fa luce sul più atroce periodo vissuto dalla penisola iberica all’indomani della caduta del regime di Franco e l’avvento della democrazia. Ne parlano a turno i vari esponenti politici e militari che fronteggiarono quella lunga crisi. Da Jose’Maria Aznar a Jose’Luis Zapatero, da Felipe Gonzalez a Mariano Rajoy, oltre agli agenti infiltrati, gli alti ufficiali dei servizi segreti, alcuni terroristi e relativi fiancheggiatori. L’ Euskadi Ta Askatasuna nasce originariamente come movimento idealista per trasformarsi ben presto e sempre di più in un’accozzaglia ultra organizzata di criminali senza scrupoli. Il cammino verso la pace fu lunghissimo, faticoso, irto di ostacoli. Decisivi si rivelarono la collaborazione con la polizia francese, nazione in cui molti terroristi trovavano rifugio e basi logistiche, e la stanchezza dello stesso popolo basco che a poco a poco prese le distanze da quella follia omicida e iniziò a scendere in piazza per esprimere il proprio dissenso. Da vedere.

Un noir senza personalità

Above Suspicion di Philip Noyce con Emilia Clarke,Jack Huston. Tratto dalla vera storia dell’agente Mark Putnam che uccise la confidente FBI Susan Smith dopo una relazione clandestina con la ragazza. Le atmosfere sono cupe, viste e riviste migliaia di volte sullo schermo. Il racconto è un lungo flash back in cui l’assasinata ricorda cosa accadde a Pickeville nel Kentucky, città desolata e desolante di chi ha perduto il lavoro e si arrangia tra spaccio di droga, alcool e consumo di cocaina. Il lato sporco dell’America che si scontra con il perbenismo stucchevole e di facciata del giovane agente spedito lassù per fare carriera. A metà tra Un Gelido Inverno di cui conserva purtroppo solo l’atmosfera musicale di Dickon Hintcliffe e non la profondità, e i mélo maledetti del genere è un film che non sa mai quale strada intraprendere. Come se fosse un lavoro lasciato a se stesso. Emilia Clarke ce la mette tutta per risultare credibile nella parte della ragazza che attraverso l’amore cerca di redimersi, non così Jack Huston, forse alla prova peggiore della carriera. Tutto è molto prevedibile: Noyce crea l’atmosfera ma non incide sugli aspetti psicologici dei protagonisti. Il resto è noia. Su Amazon Prime.

Con questi Gentlemen il divertimento è assicurato

The Gentlemen di Guy Ritchie. Nulla di nuovo né nella cinematografia di Ritchie né tantomeno sul fronte dei gangster movies << leggeri >>. Eppure dopo un’iniziale sensazione di deja vu, The Gentlemen diverte, attacca lo spettatore allo schermo o al monitor, lo rende partecipe soprattutto se rinuncia alla versione doppiata e passa a quella originale. La prova del cast è infatti eccezionale, con Hugh Grant capace di avere trovato una seconda giovinezza, Matthew McConaughey che conferma le proprie qualità di trasformista, Colin Farrell che sparge il proprio carisma a piene mani, Michelle Dockery sicura di sé stessa nella parte della << pupa >> del boss, Charlie Hunman, la cui interpretazione è forse la più completa, dovendo passare da un’apparente riflessività a un cinismo senza scrupoli. Ma ci sono anche Eddie Marsan, che si ritroverà a vis a vis con un maiale, e Jeremy Strong, imperscrutabile e impassibile figlio di buona donna. Ad ogni personaggio Ritchie attribuisce una inflessione dialettale differente, divertendosi come un pazzo a confondere, mischiare le carte e a rendere indecifrabile un finale sorprendente. Frizzante, brillante. Ottimo per sconfiggere la depressione da lockdown. Visibile ora su Amazon Prime.

Ethos, una serie tv concentrato di intelligenza e garbo

Ethos(serie tv) di Berkun Oya. Una delle serie televisive più interessanti tra quelle proposte da Netflix. L’originale turco Bir Başkadır significa è un altro (anche al femminile) ed è molto efficace per individuare il nucleo di questo lavoro che quasi spontaneamente ha conquistato gli spettatori. È uno spaccato tutto giocato sulla psicanalisi della Turchia e delle sue profonde contraddizioni, una nazione divisa tra la modernità e il mantenimento delle tradizioni religiose. Il personaggio centrale è quello di Meryem,ragazza delle pulizie in preda a frequenti e misteriosi svenimenti. La sua figura è centrale perché è il simbolo di chi proviene dalla Turchia ancorata al passato che si confronta con quella ultracontemporanea. Dalle sue << rivelazioni >> alla psicologa Peri, simbolo dell’upper class di Istanbul, scaturiranno eventi e fatti che andranno a coinvolgere la vita dei vari personaggi presenti nella serie, uno legato all’altro dal caso o dai rapporti di sangue. Tra Woody Allen, la psicologa che ha bisogno della psicanalista, e il Fatim Akim di Ai Confini del Paradiso, Ethos è un concentrato di intelligenza, garbo e anche di ruffianeria-ma ci vuole per tenere desta l’attenzione degli spettatori- che ripropone tutto ciò che attanaglia i grandi autori del cinema turco, si pensi a Ceylan, e probabilmente la popolazione di una terra di confine dove tutto appunto è altro e ognuno sente il peso dello straniamento. Una Recherche del proprio Ethos intimo più che fisico, una corsa verso la conoscenza di sé stessi, dell’ego mai definito che non ha nelle sue brevi otto puntate un momento di stanca, con l’autore che tiene ben teso il filo dell’ironia per spiegare un popolo e una nazione. L’ho amata tantissimo, restandone inghiottito.

Fauda, uno dei migliori prodotti seriali al mondo

Fauda(serie tv)di Lior Raz e Avi Issacharoff, regia di Assaf Bernstein. Adrenalina allo stato puro per questa serie israeliana diventata un successo mondiale grazie alla piattaforma Netflix. Una bella riflessione sui rapporti tra israeliani e palestinesi attraverso le imprese di agenti sotto copertura dei servizi segreti. L’intelligenza dello script ci propone un mondo di antieroi, dove ognuno, da una parte e dall’altra, ha perduto qualcosa e la paura domina le scelte. Agenti sotto copertura contro terroristi, dirigenti dei rispettivi servizi segreti specchio l’uno dell’altro, mettiamo uniti da profonda amicizia e rispetto personale. La fotografia di un mondo dove oltre i muri che vengono eretti c’è molto di più. Tutto all’insegna delle missioni, dell’action movies dai profondi contenuti etici, laddove l’etica sembra mancare. Ma è un trucco.Tre serie, una quarta in preparazione. Cast perfetto con in testa Lior Raz, uno degli ideatori, agente duro e in apparenza spregiudicato ma in realtà devastato dai dubbi, diviso tra l’obbligo professionale e quello morale. Fauda è uno dei migliori prodotti seriali al mondo. Non vedo l’ora che inizi la prossima….puntata.

Queste Favolacce meno originali di quanto si dice

Favolacce di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Premiato alla Berlinale 2020, giunto in proiezione in pieno lockdown, è la seconda opera dei gemelli laziali ma non convince come la precedente. Il timore è che la poetica della borgata imborghesita abbia forzato la mano ai due autori. Ancora una volta ci si trova di fronte a famiglie e figli. Ma quei valori che i secondi non intravedevano nel precedente La Terra dell’Abbastanza questa volta mancano anche ai primi, ormai classe morta. È un film sulla devoluzione del nulla, su un vaso comunicante interrotto. Adulti bambini e bambini che adulti non diventeranno mai, perché la disperazione è il dato acquisito di uno status quo originario. Cosa c’è quindi che non funziona in Favolacce? Il rimando a cose già viste e lette porta il film a passeggiare sul crinale dello scontato come se in realtà sia un’opera prima, meno matura della precedente, realizzata con la consueta qualità superiore che è marchio di fabbrica dei D’Innocenzo. C’è un po’di tutto: Malick, Lynch, i racconti maledetti di Michel Faber-tipo la raccolta dei I Gemelli Fahrenheit- suggestioni pasoliniane di Sergio Citti. Il finale, però, è da incorniciare e la recitazione complessiva del cast-non solo di Elio Germano-è di levatura.Sia chiaro se tutte le opere italiane fossero di questo livello saremmo sempre a parlare di lana caprina. Ma è giusto che lo spettatore medio possa dire la sua e non essere pienamente d’accordo con il mainstream dell’applauso ad ogni costo.

1917:il primo flop di Sam Mendes

1917 di Sam Mendes. Sulle prime ti sembra di essere in quel giochino sparatutto-credo si chiami Lo Sbarco in Normandia-che si trova sui siti ludici, riportato alla prima guerra mondiale. Poi, una volta che il nostro eroe ha ricevuto una bella fucilata da un nemico tedesco preludio del buio sullo schermo, la prospettiva cambia e dal semplice pim pum pam si passa a un’atmosfera fantasybellica dove l’irreale non si trasforma mai in surreale e il caporalino si muta in un Indiana Jones da primo conflitto bellico. Alcuni hanno gridato al capolavoro, altri alla boiata di classe. Pur parteggiando più per i secondi che per i primi, ammetto la bellezza formale, apprezzo il << finto >> piano sequenza lungo quasi due ore e mi fermo, perché più in là proprio non riesco ad andare. 1917 non è un film; è uno schema, una struttura senza un’idea drammaturgica alle spalle, una banalissima riflessione sul singolo e la storia. Sam Mendes, qui al primo flop di una carriera importante, firma un’opera fragile come un fuscello dove solo la forma si salva. Tutto il resto è noia.

Lav Diaz sfiora il capolavoro

Storm Children:Book One di Lav Diaz. Hai sonno, accetti l’offerta in streaming di questo docufilm-ma definirlo tale è riduttivo-e trascorri almeno 30’nell’osservare ragazzini che scavano, rovistano, separano massi, bottiglie da montagne di rifiuti o dragano un torrente in piena a Eskina mesi dopo il terrificante passaggio dell’uragano Haiyan del novembre 2013. I lunghissimi piani sequenza di Diaz, il suo bianconero, i rumori dei pezzi di legno che graffiano i massi, del traffico della città, dei galli che cantano, simboli della devastazione globale lontana da qualsiasi ipotesi di successiva ricostruzione. Insomma ti domandi cosa ci stai a fare di fronte a uno schermo a osservare quelle immagini che sembrano fisse. Eppure resti lì, invece di assopirti definitivamente ti risvegli e inizi a pensare che di ciò che vedi non puoi più farne a meno. Perché il film va avanti, persino l’inquadratura fissa riesce a offrirti nuovi spunti, nuovi personaggi che si muovono sullo sfondo: un gruppo di persone che discendono da una scala vista in lontananza, un cane con tre zampe che si muove tra i rifiuti, i bus filippini che si fermano e caricano gente. Poi si arriva laddove tutto è iniziato:al mare con una nave che andando a spiaggiarsi ha distrutto un intero quartiere e che ora è là messa quasi a protezione della gente che cerca di ricostruire e ripartire. Orca assassina e allo stesso tempo grande madre, divinità a cui aggrapparsi per avere un futuro. Creatrice di morte e resurrezione. La camera del grande regista filippino si aggira seguendo i suoi ragazzini, cogliendoli negli atti quotidiani, facendoli parlare di ciò che è stato, delle morti, dell’accettazione del destino e della leggerezza, seppur nella tragedia, di una vita che in ogni caso prosegue. Il film-in italiano il titolo è stato tradotto in I figli dell’uraganofluisce come l’acqua, come la pioggia incessante che si scarica nell’arcipelago attorno a Cebu, intrufolandosi nelle baracche e in ciò che resta. Il finale è un inno alla gioia e alla vita. Chi ama il cinema non può non custodirlo tra le cose migliori mai viste. Girato quattro mesi dopo il passaggio del tifone da un autore o amato o odiato, Storm Children può essere descritto con un solo termine, che uso molto raramente:capolavoro.

The Wailing: l’imperdibile film di Na Hong-jin

The Wailing(originale Goksung e in coreano Gokseong) di Na Hong-jin. Presentato fuori concorso a Cannes nel 2016, mai giunto nelle sale italiane se non per un breve passaggio al festival di Torino e in eventi specializzati sul cinema del far-east, è un quasi capolavoro che conferma la versatilità e la capacità narrativa di uno degli autori più interessanti della ricca cinematografia sudcoreana. Travestito da horror, The Wailing gioca con tutte le declinazioni del genere non rinunciando mai alla sottile ironia e alla raffinatezza di immagini e messa in scena. Morti misteriose devastano la tranquillità di un villaggio. Un sergente della polizia locale paffutello, abituato al tran-tran casa-famiglia-lavoro(poco), piomba al centro di un incubo, in cui resterà coinvolto il suo nucleo con conseguente sconvolgimento dell’esistenza. Inquietanti presenze, pustole che spuntano all’improvviso sui corpi, anime possedute, tarantolate, sciamani che lottano tra loro. The Wailing si trasforma a poco a poco in una indimenticabile allegoria di un mondo in cui bene e male coincidono annullandosi e dove viene esaltata la vacuità delle credenze religiose. Finale aperto all’interpretazione e all’intuito dello spettatore. Ne esiste un altro, alternativo e tagliato in sede di postproduzione molto più esplicativo per chi è povero di immaginazione, visibile su youtube, anch’esso molto efficace, ma più didascalico. Na Hong-jin orchestra da maestro i parametri di un cinema teso, in cui i congegni narrativi, horror, commedia e noir, si intersecano e si incastrano confluendo in una realtà che va oltre l’onirico. I 156′ si sorseggiano come uno spritz al tempo del covid-19 con il recupero di un gusto che sembrava perduto. Interpreti all’altezza: Kwak Do-won, il sergente, è una star televisiva che con l’autore aveva già lavorato in The Yellow Sea. Jun Kunimura, il misterioso giapponese, è volto noto del cinema internazionale e non solo asiatico; la bella Chun Woo-hui era in Mother di Bong Joon-ho e lo sciamano Hwang Jung-min è uno dei volti più popolari del cinema sudcoreano, protagonista di The Unjust di Ryoo Seung-wan. Scandaloso che non sia mai stato proiettato in sala e sia giunto da noi in home video e in streaming. L’ho trovato su Amazon ma è presente anche in altre piattaforme. Imperdibile per chi ama il cinema e non solo il genere.

Bombshell:oltre i monitor della tv c’è un mondo schifoso

Bombshell La voce dello Scandalo di Jay Roach. L’emergenza Covid ha impedito ai produttori di distribuire nelle sale il film che ha portato Charlize Theron, Margot Robbie e il truccatore Kazu Hiro alla candidatura agli Oscar 2019. Ci ha pensato dunque Amazon Prime a inserirlo in queste settimane nel proprio listino. Bombshell è il classico film rigoroso tutto giocato sulla nuda e cruda cronaca degli eventi che scossero il mondo di Fox News nel 2016, quando l’anchor woman Gretchen Carlson, dopo essere stata licenziata dalla rete, iniziò una battaglia legale contro il potente Roger Ailes, all’epoca presidente e deus ex machina delle news di Fox con il vizio di richiedere prestazioni sessuali in cambio di avanzamenti di carriera e di popolarità. Jay Roach mantiene fede al proprio passato- tra le sue cose precedenti la sceneggiatura de La Grande Scommessa e l’encomiabile quanto sottovalutato L’Ultima Parola-La Vera Storia di Dalton Trumbo-e orchestra un film che se ne sta alla larga da manie pruriginose. Non c’è soltanto la condizione delle donne nel mirino del regista statunitense, piuttosto quella di un mondo rigidamente controllato dove uno vale l’altro, dove si è numeri a prescindere e l’ansia dell’apparire è una micidiale arma di ricatto fisico e morale. Solida è la sceneggiatura che non è per niente monocolore. Le tre protagoniste, Charlize Theron-l’anchor woman Megyn Kelly- Nicole Kidman-Gretchen Carlson-e la sempre più brava Margot Robbie-l’unico personaggio non reale del film ma molto funzionale alla trama-non sono per niente immuni da peccati e solo la più giovane tra loro si ribellerà per davvero operando una scelta coerente con la propria etica e l’unica che alla fine non ci guadagnerà né in fama né in denaro. Il trio femminile gira a mille, con Theron e Kidman irriconoscibili e imbruttite per assomigliare quanto più possibile alle reali protagoniste della vicenda e bravissimi sono John Lithgow e Malcom McDowell, nelle parti di Ailes e Rupert Murdoch. Oltre i monitor degli schermi c’è un mondo: fa schifo anche quello.

Vox Lux, il perfettibile <<seguito>> de L’Infanzia di un Capo

Vox Lux di Brady Corbet. L’Infanzia di un Capohttp://guido.sgwebitaly.it/articoli/ipnotico-e-fascinosocon-linfanzia-di-un-capo-e-nato-forse-un-grande-regista/– mi aveva esaltato ma aspettavo come tutti quanti il successivo lavoro di Corbet per ricevere la conferma delle sue potenzialità. Come spesso accade l’opera seconda non è all’altezza della prima. Sia chiaro Vox Lux nel complesso è un buon film ma rispetto al precedente non crea quel coinvolgimento radicale, quasi ipnotico, che ne aveva caratterizzato la visione. Peccato perché l’idea iniziale di Corbet era interessante: partire da una strage simil Columbine per ripercorrere diciotto anni, dal 1999 al 2017, di storia americana attraverso l’ascesa di una ragazzina vittima di quell’episodio nello star system musicale a stelle e strisce. Morte come nuovo inizio, cambiamento, confusione, sfruttamento degli stereotipi di un mondo che ha perduto la bussola morale. La relazione con L’Infanzia di un Capo è strettissima. Il personaggio di Celeste fa il paio con Prescott, ne è l’alter ego femminile inserito in un contesto in cui il kaos determina un dispotismo parallelo: ne L’Infanzia di un Capo, Prescott era il mostro che assimilando prima e rifiutando poi i modelli impartiti dalla famiglia si infilava nel vuoto morale per creare un nuovo ordine dispotico universale. Celeste è figlia della civiltà dell’immagine e della finzione. Il suo progressivo dispotismo danzante-musicale nasce e si evolve con lo stesso procedimento. Però Corbet si affida fin troppo a stilemi, anche psicologici, usuali, ragion per cui l’intenzione non sempre riesce a raggiungere l’obiettivo. Il cast ruota attorno a Natalie Portman, Celeste da adulta, che canta e balla ma la migliore è Raffey Cassidy che interpreta Celeste da giovane e poi la figlia di sé stessa, altra analogia con L’Infanzia del Capo. Misurate le prove di Jude Law e di Stacy Martin, al secondo film con Corbet. Musiche di Sia supervisionate da Chris Walker qui al suo ultimo lavoro. Dedica finale a Jonathan Demme.

The Bra:l’illusione non viaggia in tranvai

The Bra, il reggipetto di Veit Helmer. Dolce e allo stesso tempo amara riflessione sull’esclusione e su un mondo in cui si è costretti a osservare attraverso un filtro senza mai esserne realmente protagonisti. Un reggiseno resta attaccato a una motrice di un treno merci che quotidianamente attraversa il quartiere Shangai di Baku. Il macchinista, una volta guadagnata la pensione, bussa alle porte di ogni casa ma l’oggetto sembra non appartenere a nessuna ragazza o donna, il che è lo stesso identico destino del protagonista. Helmer orchestra un film muto, caricato di colori, in cui la musica quasi sempre viene scandita dai rumori meccanici dello sferragliare e delle macchine. Il gioco non sempre regge, troppe sono le ripetizioni e gli indiretti omaggi a cose già viste, il che non aiuta l’armonia di un racconto che ruota eccessivamente attorno a se stesso e che abusa di stereotipi– vedasi alla voce il bambino che dorme in una cuccia da cane- nel tentare di creare poesia nella poesia. Bravissimo come sempre Predrag Manojlovic, efficace Denis Lavant. Parafrasando Bunüel, L’illusione questa volta non viaggia in tranvai.

Difficile, a tratti claustrofobico Cavalo Dinheiro ipnotizza

Cavalo Dinheiro di Pedro Costa. È un film del 2014, la versione al maschile del più noto Vitalina Varela, Pardo d’oro a Locarno nel 2019. Il tempo compresso in spazi chiusi, dove si aggira il manovale-feticcio dell’autore portoghese- Ventura, emblema della società capoverdiana importata in Portogallo all’epoca della rivoluzione del 1974 e costretta a vivere in condizioni miserrime nel barrio di Fontaìnhas. Ogni inquadratura è un quadro vivente, in cui le luci e le ombre delineano il non luogo; i pensieri dell’uomo sono un fluire ininterrotto di parole che fungono da vere e proprie scansioni temporali, viaggiando tra memoria, un inesistente presente, un incerto passato e la reale quanto inutile tragedia della condizione umana. I corridoi dell’ospedale sembrano traslati direttamente da Il Corridoio della Paura di Samuel Fuller, le viscere in cui si cala il protagonista paiono un gorgo infernale. Il cinema di Pedro Costa si presenta come piatto indigesto, lugubre, cupo, disperato, esso stesso fuori da qualsiasi tempo come l’ascensore in cui Ventura si trova rinchiuso accanto a un’ immobile statua vivente di un soldato. Capsula di sospensione e riflessione. Ed è, paradossalmente, da questa difficoltà che lo spettatore viene travolto, ne resta invischiato, ipnotizzato, in gioiosa balìa di un autore unico nel proprio genere. Ventura come Pim di Beckett, come era prima di Pim, come è.

Interruption, eco delle passioni dei giovani liceali

Interruption di Yorgos Zois. È un film del 2015 presentato a Venezia nella sezioni Orizzonti, poi transitato in alcuni festival e distribuito nel 2018. L’Orestea di Eschilo rivisitata in salsa contemporanea da un coro e direttore di questo con coinvolgimento degli spettatori ai quali si chiede di partecipare, prendere decisioni, inventarsi una trama. Fin qui nulla di nuovo, sono cose che abbiamo vissuto(e fatto) ai tempi del Living Theatre ed già passato mezzo secolo. Piuttosto è interessante il confronto-scontro tra mito e contemporaneità con quest’ultima obbligata a decodificare il primo, a cercare di annullarlo anche con la violenza estrema. Ma è un bluff. L’autore greco si diverte a portare all’interno di un teatro tutti i tic intellettuali che ci hanno reso giovani per l’eternità: finzione, osservazione, scambio di ruoli, percezione, purificazione. È un gioco di specchi che funziona benissimo a livello estetico. Zois ha gusto: la gabbia dentro cui si trova il coro sembra una prigione che fa il paio con quella mentale in cui gli spettatori vengono costretti dal direttore, acquisendone la consapevolezza solo dopo aver stimolato e subìto il gesto estremo. Yorgos Zois prende spunto dai fatti moscoviti accaduti al teatro Dubrovka nel 2002 per lanciarsi in fin troppe riflessioni. Eppure il film dispensa fascino e intuizioni, non passa inosservato. Il finale è splendido, ironico più che catartico così come la recitazione rasenta lo stato dell’arte. Dedicato a chi non ha dimenticato i dolori e le passioni dei giovani liceali.

Il Vegetariano: quando l’indipendenza produttiva è vincente

Il Vegetariano di Roberto San Pietro. Al confine tra docufilm e fiction, la riuscita opera di San Pietro penetra nel mondo ai più sconosciuto degli immigrati che lavorano negli allevamenti emiliani. La camera segue il percorso esistenziale di un ragazzo indiano che riuscirà a laurearsi e a sposare una giovane operaia russa rinunciando però ai compromessi imposti dalla cultura occidentale. La sua cocciutaggine nel non tradire la propria filosofia religiosa ed esistenziale lo porterà ad un’inevitabile tragica fine. Girato con grande classe e senso di equilibrio, il film non divide il mondo in bianco e nero– merito non da poco- ma mostra un’umanità in bilico tra tradizioni e dolorosi cambiamenti. Ambientato nel reggiano, nelle campagne di Novellara con sconfinamenti nel mantovano, con altri affascinanti esterni in riva al Gange e al Mincio, interpretato da attori non professionisti, Il Vegetariano cresce di qualità quando l’ingannevole e apparente fredda esposizione iniziale si trasforma in trama e quindi in storia. Ottima la sceneggiatura che mai ingigantisce l’aspetto edulcorato e compassionevole né nasconde le brutture e la cattiveria. Una piccola chicca. Quando l’indipendenza produttiva…..dipende dalle idee.

Rocketman: Elton John messo a nudo in modo magistrale

Rocketman di Dexter Fletcher. Laddove fallisce Bohemian Rhapsody riesce questo biopic su Elton John. La commedia musicale diventa il grimaldello-piacevole e divertente-per comprendere le sfumature dell’uomo, per metterlo a nudo. Grande interpretazione da parte di Taron Egerton. Messinscena variopinta, colorata, quasi psichedelica stile Ann’70. Battito di mani.

Audiard non sbaglia il suo racconto della frontiera

I Fratelli Sisters di Jacques Audiard. Il grande autore francese finge di varcare l’Oceano per andarsene in un viaggio western in un’America che non ha frontiere, che è un sogno in intinere. In realtà ripropone in modo magistrale i temi a lui più cari: menomazioni morali e fisiche come metafore di ciò che si è perduto, la sconfitta delle utopie di società migliori, la salvezza nei vincoli di sangue. Il tutto rivisitando il genere, tuffandosi dentro il western con la gioia di un bambino che, come noi, si è cibato di quei film e che del genere non si stancherà mai. Grande cast con il duo Phoenix e Riley in gran spolvero e Gyllenhaal-Riz Ahmed non da meno. Standing Ovation.

Il solito Woody e il solito ottimo film

Un giorno di pioggia a New York di Woody Allen. È verissimo il signor Zelig gira sempre attorno agli stessi argomenti; qui ritorna a casa propria costruendo in modo dolce, quasi malinconico e con la solita graffiante ironia preconclusiva il romanzo di formazione di una coppia di ragazzi alle prese con il fascino, i tic, le nevrosi, gli isterismi, le illusioni e disillusioni della Grande Mela. Bravissimi Chalamet, Fanning, Gomez, Law, Schreiber e Jones. La morale è che New York resta sempre il luogo dove tutto è possibile, l’unico e autentico posto del sogno. Niente di nuovo fino a un certo punto ma i film di Allen sono come i romanzi dei fratelli Singer. Non sbagli mai a vederli come a leggerli. Magistrale.

Hunters, carino si ma poco originale

Hunters di David Weil. È la serie tv di dieci puntate che ha sosituito L’Uomo dell’Alto Castello come punta di diamante dei prodotti di Amazon Prime. Grande cast con Al Pacino che in ogni caso non riesce a mettere in secondo piano tutti gli altri, tra i quali spicca uno straordinario-come sempre-Dylan Baker, fuori di testa come ai tempi di Happiness di Todd Solondz. La partenza della serie è fiacca, confusa, lentissima con una prima puntata senza pathos né tensione che dura la bellezza di un’ora e mezza . Poi cresce a poco a poco e nonostante un evidente calo nell’ottava apre a un finale a sorpresa preludio di ciò che accadrà nella prossima edizione. Come prodotto è di alta qualità ma non inventa nulla con il difetto di ispirarsi e di prendere a nolo situazioni e montaggi già visti e a volte di sfiorare lo schematismo. Il fatto che sia migliorata di puntata in puntata lascia speranze per un seconda stagione al top. Mi ha divertito, non entusiasmato. Non è di certo al livello di Too Old to Die Young di Refn, che resta a oggi il prodotto migliore, poco conoscosciuto e poco promosso della corazzata di Jeff Bezos.Morale: un << Essi Vivono >> per famiglie ma l’originalità è altra cosa.

Le Villeggianti:Bruni Tedeschi può dare di più

Le Villeggianti di Valeria Bruni Tedeschi. Io adoro questa signora per la sua sensibilità, la spiccata intelligenza, il gusto e il coraggio di affrontare strade sempre diverse. Il suo film del 2019 affascina ricalcando stereotipi psicologici, isterismi e nevrosi di cui la splendida villa è contenitore e, come nella migliore tradizione drammaturgica, luogo deflagrante di questi. Le mancanze colpiscono a turno ognuno dei protagonisti, tutti sono monchi, tutti alla ricerca disperata di un motivo per proseguire. Eppure, a fronte di un incipit potente e promettente, il film alla lunga si appiattisce, diventa ripetitivo e la soluzione finale appare troppo artificiosa e poco convincente. So che VBT può fare molto di più.

La grande qualità di Damiano e Fabio D’Innocenzo

La Terra Dell’Abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Non è importante che sia un film del 2018, più grave che lo spettatore medio lo avesse perduto. È la qualità che interessa e i fratelli laziali al loro primo lungometraggio la cospargono in modo intelligente e parecchio professionale. La storia di due ragazzi della periferia romana che un tempo si chiamava borgata descritta senza retorica né stereotipi. I fratelli D’Innocenzo vanno per sottrazione, inserendo i loro protagonisti in un paesaggio spogliato da ogni compiacimento stilistico: casermoni visti in lontananza, strade deserte, sopraelevate da skateboard come reperti di un non passato. La Terra Dell’Abbastanza è il ritratto di un’umanità orfana di modelli; la violenza come scelta di pura casualità senza alcuna possibilità di riscatto successivo. Tutto è nudo e in veste di presenza fissa dietro le quinte gli autori sembrano porre agli spettatori la domanda su cosa la società dell’oggi è capace di proporre. Ottime le prove attoriali dei giovani Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano così come dei rispettivi genitori Milena Mancini e Max Tortora. Di qualità ne abbiamo? Molto più di…abbastanza.

Forse è meglio passare a C’è posta per te

Juliet Naked di Jesse Peretz. Commediola senza infamia e senza lode che parte molto bene e poi si perde nello scontato, fiaccando le ottime prove attoriali di Ethan Hawke e Rose Byrne. Sono quei film che mettiamo guardo a casa in una serata in cui non voglio impegnarmi più di tanto ma che nulla aggiungono alla conoscenza o al gusto dello spettatore medio che sono. La prossima volta guardo C’è Posta per Te.

Bohemian Rhapsody, un’opera sovrastimata

Boehemian Rhapsody di Bryan Singer. Vedi alla voce wikipedia chi era Freddy Mercury e chi erano i Queen. Sarà che il mio quasi recente modello di riferimento per un biopic su un’artista più o meno maledetto è il notevole Control di Anton Corbijn sulla vita di Ian Curtis ma in questo strombazzato prodotto ho trovato solo musica e poco Mercury. Un compitino pulito pulito. Per carità è formalmente bello con l’eccellente Rami Malek da premio Oscar eppure da un regista che ha firmato I Soliti Sospetti sarebbe stato lecito pretendere di più. Fortunatamente ho risparmiato il costo del biglietto, guardandolo a casa. Quattro salti in padella e il pranzo è servito.

Downton Abbey, ottimo come la serie tv

Downton Abbey di Michael Engler. Piacevolissima trasposizione cinematografica di una tra le serie televisive di maggior successo. Padroni e servi uniti dallo stesso obiettivo e dal reciproco rispetto. Cast che gira al massimo, serietà cinematografica dispensata a piene mani. Professionale

Interessante ma poco profondo l’Assoluto Presente

L’Assoluto Presente di Fabio Martina. Film ormai di un paio d’anni fa, la prima uscita in pochissime sale risale alla fine del 2017, opera prima di un regista che mostra buone potenzialità. Tre ragazzi senza motivo alcuno pestano a sangue un altro nella notte milanese. L’autore cerca di mettere in scena una gioventù che non ha né passato né guarda al futuro e che risponde semplicemente agli impulsi del momento. Il tema è interessante, ben interpretato e ben girato. Peccato che la sceneggiatura si affidi fin troppo agli stereotipi: i tre sono tutti figli della buona borghesia, ognuno ha un problema pregresso all’interno della famiglia. C’è il rampollo dell’imprenditore senza scrupoli che regala orologi e suv-<< non so se vale più il tuo regalo o il regalo in se stesso >> dice il ragazzo al padre-ma non riesce a essere una guida etica; c’è il fotografo in erba, in ansia di prestazione per scacciare l’ingombrante figura paterna che è uno dei più importanti fotografi della sua epoca e c’è chi pensa a trascorrere le nottate in discoteca e a ballare per sfuggire al dispotismo della madre. Tra crisi di coscienza, improvvise fragilità, perfidie gratuite, tradimenti, violenza cieca e spesso acefala, Martina traccia uno sconsolato ritratto a volte convincente altre meno della gioventù contemporanea. Funzionano la struttura a flash back, l’ambientazione estetico-sociale, il senso di totale mancanza di prospettive individuali dei protagonisti e la messa in scena. Ma tutto rischia di restare in superficie a causa di un soggetto che non affonda affidandosi fin troppo a semplicismi. Buona la prova dei tre giovani Yuri Casagrande Conti, Claudia Veronesi– che interpreta benissimo Riccardino- e Gilberto Giuliani. È lo stesso tema trattato con ben altro spessore e originalità dai gemelli D’Innocenzo in La Terra dell’Abbastanza, visto non più dalla borgata bensì dall’ambiente dell’alta borghesia. Promosso con riserva.

La Paranza dei Bambini:se la napoletanità diventa un genere

La Paranza dei Bambini di Claudio Giovannesi. Carino sì ma non aggiunge nulla di nuovo a quanto si è già visto, rivisto e a ciò che si conosce e non capisco lo squillo di trombe e i rulli di tamburi di accompagnamento alla proiezione. L’impressione è che la napoletanità di chi sta dall’altra parte stia diventando un vero e proprio genere cinematografico, però come si sa il troppo stroppia e temo che questo continuo abusare dei soliti argomenti rischi per seccare la pianta. Preferisco allora i docufilm degli autori locali. Si veda per esempio l’encomiabile Largo Baracche di Gaetano Di Vaio che nel 2014 trattava lo stesso argomento in presa diretta con ben altri risultati e sfumature, unendo informazione alla fiction. Nulla di nuovo sul fronte meridionale.

Per chi ama Joe R Lansdale

Hap&Leonard di Jim Mickle e Nick Damici. È una serie tv a cui sono giunto in ritardo grazie a un film tratto da uno dei libri di Lansdale girato dallo stesso Mickle nel 2014,Cold in July o Freddo a Luglio. Io amo Joe R.Lansdale, uno dei maggiori narratori americani contemporanei e trovare seppur con estremo ritardo un regista capace di creare una serie da alcuni suoi romanzi è stata una manna, resa possibile grazie al dover stare in casa per la classica influenza invernale. Fedeli ai libri da cui sono tratte, Una Stagione Selvaggia, Mucho Mojo e Il Mambo degli Orsi, le diciotto puntate complessive sono tra le cose migliori realizzate per la serialità. Di Lansdale c’è tutto: l’ironia graffiante, il suo Texas, la spietata critica al razzismo latente-da una parte e dall’altra-, lo sbandamento sociale dei reduci del Vietnam, l’imprevisto, la simpatia dei suoi due eroi Hap Collins e Leonard Pine, la luce accecante di quello Stato che copre negli stagni, nei fiumi, nelle paludi, nelle fondamenta delle case e delle chiese efferati omicidi. E c’è l’amizia profonda che va oltre le differenze degli orientamenti sessuali, trattata con naturalezza da Lansdale decenni prima che diventasse convenzione per benpensanti.Bravissimi i due protagonisti James Purefoy e Michael Kenneth Williams. Grande anche il cast generale delle tre stagioni con presenze tra le altre di Christina Hendricks e Brian Dennehy. Il difetto? La serie si è conclusa nel 2018 e non si capisce perché Sundance TV l’ abbia cassata. Chi ha Amazon Prime non se la faccia sfuggire. Una serie,tre romanzi, uno scrittore. Nel segno di Joe R.Lansdale.