È Stata La Mano di dio: l’arcadia ritrovata di Paolo Sorrentino

Il tornare alle origini per ripartire

Troppo spesso negli ultimi tempi, a partire da La Grande Bellezza, il talento visionario di Paolo Sorrentino aveva corso il rischio di tramutarsi in complesso, pur se geniale, esercizio di stile, dove la forma prendeva il sopravvento sulla sostanza. Con È Stata la Mano di dio , l’autore napoletano sembra voler tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è stato il suo cinema fino ad oggi e ciò che potrebbe essere in un domani prossimo venturo. Perché È Stata La Mano di dio è opera controllata, più autentica e spostanea delle precedenti, molto onesta in cui l’introspezione nasce dalla ricerca delle proprie radici. Una sorta di autonalisi dove Sorrentino si incunea con la serenità, la consapevolezza di affrontare i ricordi e gli incubi personali osservandoli in bianco e nero, come cartoline ingiallite. In questo modo offre emozioni a chi sta in sala frenando le proprie. È merito non da poco.

Rileggere sé stesso a Napoli e con Napoli

Napoli è il luogo deputato di questo ritrovarsi, Il contenitore che coincide come per magìa con il contenuto, dove l’acqua è un fluire continuo che non porta altrove ma riporta alla città, alla terra natìa, alle origini del ragazzo Paolo Sorrentino. Un legame che va oltre il luogo fisico, che non è solo memoria bensì il nucleo essenziale di una persona che qui è nata e che grazie alla napoletanità è riuscito a dare forma unica e originale alla professione. Infatti È Stata la Mano di dio è anche una riflessione sul cinema, su quel mezzo in grado di manipolare la realtà per donarcela nelle sue forme più belle o più tragiche, proprio come fa Napoli con l’epifania dei propri eccessi di bellezza e di bruttezza, laddove tutto è possibile nel bene e nel male.

L’unione di memoria e perseveranza

Così il giovane Fabietto Schisa, alter ego del regista da giovane, ci racconta il cammino dapprima leggero e poi doloroso verso l’acquisizione della maturità e la consapevolezza di voler agguantare il sogno di diventare regista, di fare cinema. Unendo la memoria indelebile di una tragedia familiare e la perseveranza che la mano di dio Diego Armando Marandona poneva nel voler migliorare sé stesso. Già Maradona, una sorta di miracolo di San Gennaro giunto in città per salvare indirettamente la vita del sedicenne Sorrentino e per dare forma a un rito quasi pagano di adorazione senza se e senza ma.

Un romanzo di formazione tra colpi di genio e rischio di stereotipi

Il cammino a ritroso nella propria esistenza porta quindi Paolo Sorrentino a penetrare nella propria Arcadia personale. Tutta la prima parte di È Stata la Mano di dio si trasforma in un album divertente, sarcastico, ironico dei ricordi familiari dell’autore. La manipolazione di questi ci introduce in un film corale dove l’istituzione famiglia assume forme grottesche ed esagerate, quelle maschere proprie della commedia dell’arte di cui il regista è probabilmente il massimo interprete contemporaneo. Attraverso queste giunge a caratterizzare i propri personaggi e soprattutto le figure centrali del padre, l’immancabile Toni Servillo, e della madre, l’eccezionale per intensità e espressività Teresa Saponangelo, sulle quali spalma un velo di profonda e sentita malinconia, dando un preciso significato al senso della perdita. Certo si tratta di un romanzo di formazione che spesso rischia di rimandare a cose già viste in altri, non solo il pluricitato e rammentato (anche qui ) Fellini, che viene sempre salvato da una profonda onestà narrativa, dal divertissement della sceneggiatura e dalla maestria dell’autore nel liberare le proprie geniali visioni , andando quindi oltre l’intuizione, in modo molto più aderente al realistico delle sue opere precedenti. E ci sono, conviene ricordarlo, Napoli e la napoletanità a provvedere a rendere credibile ciò che appare. Che è la forza del cinema.

Un’opera catartica per ritrovare la leggerezza perduta

Alla fine è proprio la riflessione sul valore del cinema a rendere speciale È Stata la Mano di dio. Cinema come condizione necessaria per trovare un senso all’esistenza, sublimazione del dolore originario, quello che non può essere allontanato, principio fondante dell’espressività artistica. Gustando È Stata La Mano di dio sembra quasi che Sorrentino abbia voluto procedere a ritroso non solo per un’operazione esegetica individuale quanto per porre una netta linea di demarcazione tra ciò che è stato il suo cinema delle origini e quello creato da La Grande Bellezza in poi dove l’eccesso di ansia da prestazione lo aveva portato troppo spesso a rifare il verso a sé stesso, ad esserne copia. È Stata La Mano di dio fissa quindi una sorta di catarsi cinematografica del regista da cui ripartire in forma nuova e con un approccio più leggero ma non meno profondo.

La chiave del film tra un contrabbandiere e un regista

È su questi temi che verte la seconda parte, quella più intimistica e meno << popolare >>. Fondamentale è l’incontro agli antipodi con un contrabbandiere di sigarette e con il regista-mentore nel reale dello stesso SorrentinoAntonio Capuano, qui interpretato dall’omonimo Ciro Capuano. Entrambi i personaggi sono essenziali. Da una parte c’è il senso disperato di vivere ai confini della provvisorietà avendo come obiettivo la leggerezza del sogno , quel tuff, tuff, tuff di uno scafo tra le onde irrealizzabile ma agognato; dall’altra la necessità di prendere atto della vita vissuta, di parlarne e spiegarla solo nel momento in cui ha si ha realmente qualcosa di dire. Sono le lezioni che permetteranno al giovane Fabietto di compiere il passo decisivo e di andare incontro al proprio destino cercando appunto di coniugare il sogno con la realtà. Ovvero aderenza totale al modo di fare cinema di Paolo Sorrentino.

Tradire Napoli ma non la napoletanità per sopravvivere

La coralità degli interpreti è la base di tutta la prima parte, la più divertente-ma mai superficiale- e ognuno fa a gara per superarsi. Servillo e Saponangelo sono i punti di riferimento della famiglia; attorno a loro abbondano le maschere simboli dei vizi e delle virtù, degli eccessi e del disincanto. Nella seconda l’obiettivo si restringe. Il dolore fa la comparsa; un dolore che Fabietto Schisa-Sorrentino, bravissimo Filippo Scotti, non riesce a far esplodere se non dentro sé stesso. È un ragazzo che si trova in una terra di mezzo, conscio del limbo in cui è imprigionato e di cui Napoli è custode. Per uscirne dovrà tradire la propria città ma non il suo essere napoletano. Un monachello apre e chiude È Stata La Mano di dio: nell’incipit, la scena in assoluto più potente dell’intera opera, splendida summa della poetica visionaria sorrentiniana e nello struggente e ottimistico finale, dove la fuga del protagonista verrà salutata dal sorriso di chi è capace di conservare la propria innocenza. La stessa che Sorrentino ha temuto di aver perduto e che con questo film ha ritrovato per donarcela.

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