Ferrari di Michael Mann è un ibrido che funziona. Per assurdo senza corse sarebbe stato perfetto

Una formula capace di accontentare tutti

Deo Gratias: avevo una paura tremenda che il Ferrari di Michael Mann seguisse la tradizionale monotonia dei film su corse e dintorni, soprattutto degli ultimi prodotti con in testa il sopravvalutato Ford versus Ferrari di James MangoldPiù che dignitosi i cow boys Bale&Damon ma i film sulle corse sono un’altra cosa– invece nulla di tutto questo. D’altronde Michael Mann nella propria lunghissima carriera difficilmente ha sbagliato bersaglio. Maestro dell’innovazione tecnica non disgiunta dal contenuto, l’autore statunitense sa portare a casa il risultato anche quando non è particolarmente ispirato. Ed è ciò che accade in Ferrari, film di lunghissima gestazione, piacevole e scorrevole in grado di accontentare il pubblico ma abbastanza distante dalle migliori produzioni del regista. La formula di voler coniugare a tutti i costi il privato e il pubblico, di donare ampio spazio al momento spettacolare delle corse automobilistiche agevolerà gli incassi, smorzando però la potenza dell’opera.

A metà strada tra un biopic e la riflessione su un uomo

Quello che lascia spazio ai dubbi in Ferrari è soprattutto il soggetto. Il film resta a metà strada tra un biopic corsaiolo e la riflessione sull’uomo che ha elevato una Casa automobilistica ad assurgere al ruolo di valore globale. Un valore che va oltre la tecnica, oltre il mito, oltre bellezza e velocità. Michael Mann tutto questo lo intuisce e cerca, con fatica, di addentrarsi nell’individuo Ferrari. Lo fa prendendo spunto dalla disgraziatissima annata 1957(ma il 1958 sarà ancora peggiore), quella della tragedia di De Portago a Guidizzolo alla Mille Miglia, della morte di Castellotti all’autodromo di Modena prima ancora. Sa, il regista statunitense, che Enzo Ferrari non può essere descritto senza le corse e cerca di amalgamare il Ferrari privato con quello più conosciuto del mondo delle competizioni. È un’operazione furba: permette allo script di far interagire questi aspetti. Uno rimanda sempre all’altro e non importa che ci siano inesattezze, si descrive la relazione tra De Portago e Linda Christian mentre quella tra Delia Scala(qui misteriosamente chiamata Cecilia Manzini) e Castellotti resta velata-c’è uno spezzone televisivo con Walter Chiari– o addirittura anticipazioni di ciò che sarebbe accaduto anni dopo, vedasi la trattativa con la Fiat e Gianni Agnelli. Lo scopo principale di Mann è scoprire o tentare di farlo le fragilità di un uomo geniale che è passato alla storia come impenetrabile, duro, a volte crudele. Purtroppo questa umanità combattuta, descritta come meglio non si potrebbe, viene attenuata-sembra assurdo- proprio dalla lunghe-appassionanti sia chiaro-sequenze della tragica e ultima Mille Miglia del 1957. E ci si domanda se non sarebbe stato meglio proseguire con il Ferrari intimo, i suoi dubbi, la lacerante relazione con i sentimenti e i tentativi di fuggire dalla gabbia delle convenzioni. Perché fino ad allora il film era perfetto proprio per l’ottica che Mann sembrava voler privilegiare. Lasciare le corse in assenza visuale ma presenza mentale, convitate di pietra, sarebbe stata una mossa da rendere questo Ferrari uno dei film più importanti del suo regista.

Adam Driver convince. Cruz e Woodley non sono da meno

Adam Driver è un ottimo Enzo Ferrari. Diverso da quello conosciuto ma convincente per capacità di donare al personaggio il senso dell’individuo fuori dall’inconografia, dal mito. Gli occhiali scuri che indossa non riescono a celare l’apnea di una situazione esistenziale e sentimentale corrosiva come il caos. Non è un uomo in pace con sé stesso l’Enzo Ferrari del film e Driver, senza inutili rafforzamenti interpretativi, è magistrale nel coglierne le sfumature. Ancora migliore è l’apporto di Penelope Cruz, nel ruolo di Laura Ferrari, e di Shailene Woodley, Lina Lardi, le donne che si trovano a gestire e a convivere con un uomo difficile. A donare, a modo loro, ciò di cui il Ferrari di Michael Mann aveva bisogno: da un lato un furioso pragmatismo per riportarlo alla concretezza, dall’altro una malinconica dolcezza per rammentargli le sue responsabilità. Il resto sono le corse, la Mille Miglia, la musica dei motori, gli sforzi dei piloti, il sogno della gente. Cose, pur nella perfezione maniacale dei dettagli, già viste e forse inutili in un film che non voleva essere di corse ma che a queste non ha saputo rinunciare.

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