Con Dogman Matteo Garrone torna nei luoghi in cui aveva ambientato gran parte de L’imbalsamatore. È la prima decisione giusta delle tante che l’autore campano ha preso per realizzare questo suo nuovo film.Non si tratta infatti di rivivere o di rivedere il caso de Er Canaro della Magliana; da quello Garrone prende lo spunto per addentrarsi nell’ennesima indagine sull’uomo che è centrale in tutte le sue opere. Utilizzare il Litorale Domizio e in specie il Villaggio Coppola come contenitore in cui inserire i personaggi di Dogman è perfetto. Nessun luogo è migliore di quello per spiegare le contraddizioni del mondo: siamo all’interno di una terra di nessuno che racchiude il senso di decadenza, di rovina architettonica e sociale, di marginalità unite però alla bellezza dell’orizzonte marino. Una magnificenza minacciosa che il direttore della fotografia Nicolaj Brüel esalta usando varie sfumature di colori.
Siamo quindi in una No Man’s Land pinteriana, un girone infernale dove la vita è imprigionata dall’assenza di prospettiva e ci si arrangia attraverso gli espedienti più comuni, dallo spaccio alla ricettazione alla gestione di fatiscenti sale giochi. È un microcosmo in cui tutti si conoscono e si frequentano, ognuno complice dell’altro in quello stato di necessità chiamato esistenza e quindi vita.
L’elemento diversificatore è il Dogman appunto, Marcello il toilettatore di cani. L’unico individuo che sembra fuori posto. Al margine in un mondo a margine perché a suo modo coltiva la bellezza e si porta appresso un’innocenza quasi incosciente anche quando spaccia cocaina. Marcello è la rappresentazione dell’uomo, delle sue debolezze, delle fragilità e allo stesso tempo della voglia smisurata di vita. Alla piccola figlia regala sogni e immersioni marine. Con gli animali che cura divide il cibo. Tutto il resto è il mondo che lo circonda, di cui è parte e soprattutto testimone. Il suo è sguardo fatto di disincanto. In un contesto del genere non può essere altrimenti che il suo alter ego sia Simoncino, il pugile cocainomane, violento, vessatore, privo di qualsiasi etica. È infatti il secondo essere diverso del villaggio, escluso per troppa violenza e sopraffazione.
Il cinema di Garrone mostra spesso l’incontro tra due personalità all’opposto. Da una parte la purezza scambiata per debolezza; dall’altra la violenza sia essa psicologica, si prenda per esempio il già citato L’Imbalsamatore o ancora di più Primo Amore, o fisica. Dogman non fa eccezione: c’è quasi un rapporto morboso alla base tra Marcello e Simoncino. L’uno sembra non poter fare a meno dell’altro ma rispetto ai film precedenti la figura di Marcello ha già piena coscienza fin dall’inizio del proprio essere vittima. È come se questa sua dipendenza dalla grettezza di Simone sia un passo necessario per affermare e non raggiungere uno stato di consapevole santità, di dio degli ultimi. Sarà fatale che i ruoli alla fine si invertiranno e che la violenza diventerà necessaria e terribile perchè alla mostruosità si può fornire solo una risposta simile. La ferocia dell’innocente usata per redimere, per riportare un’ideale di bene laddove questo era scomparso. Ma questo non basterà e non interesserà a nessuno: il destino dell’uomo è macerarsi attraverso la propria solitudine, restando con un cane e un cadavere a terra in una importante inquadratura finale dove il contentitore, uno spiazzo circolare, offrirà un senso di vuoto radicale e quasi una condanna alla disperazione.
Dogman è un film splendido. Conferma la grandezza di Matteo Garrone che invece di parlarsi addosso come altri centellina la propria produzione aggiungendo sempre novità. Quelle inerenti a Dogman sono le indagini sul volto. In passato, vedasi Primo Amore, c’erano state quelle sul corpo. Qui invece sono proprio i primi piani, le espressioni, l’esplosione delle imperfezioni, delle irregolarità dei volti che dominano il film. Per questo sono stati scelti attori in grado di esaltare il senso di marginalità per farlo diventare universale e definitivo. Il volto per Garrone è un dipinto più che un’inquadratura; in Dogman questa ossessione gli serve per giungere senza troppi giri di parole all’essenza di ciò che vuole raccontare: qualcuno mi ha fatto notare la somiglianza con i quadri di El Greco, io ho intravisto similitudini con la serie dedicata ai buffoni di corte di Diego Velàzquez, probabilmente perché in Dogman è fortissima la contrapposizione tra animali, i cani, e l’individuo così come lo era nell’opera del pittore spagnolo. Fin dall’incipit Garrone trasforma i cani in coprotagonisti del suo film. Sono i giudici che ci osservano. Essi stessi vengono ripresi spesso e volentieri con ampio uso di primi piani proprio come accade con l’indimenticabile volto di Marcello Fonte, giustamente premiato con la Palma d’Oro per la migliore interpretazione maschile al festival di Cannes.L’attore e regista di origine calabrese ha una forza scenica impressionante, riuscendo a dare un senso a un personaggio molto difficile che deve restare sospeso tra il mondo dei dannati e quello delle anime pure. L’averlo scelto per essere al centro di Dogman è altro merito di Garrone che con questo suo film ci ha regalato un opera cupa, nera come la pece, intelligente dove nulla è messo fuori posto e i bla bla sono banditi.Difficile trovare di meglio in Italia.