La famiglia è morta, viva la famiglia. Questa volta Kore-eda entusiasma

Esistono percorsi narrativi su cui lo spettatore è portato a incamminarsi credendo di muoversi lungo una linea retta ma che in realtà è curvilinea e a volte prende un sentiero diverso da ciò che si poteva immaginare. Per riuscire a essere credibili in queste operazioni bisogna possedere il talento del fuoriclasse, del maestro quale è Hirokazu Kore-eda, trionfatore al festival di Cannes con Un Affare di Famiglia. Capisco che questa introduzione possa stupire alla luce del non troppo esaltante e tutto sommato sopravvalutato Ritratto di Famiglia con Tempesta, l’opera precedente dell’autore giapponese sulla quale avevo nutrito qualche dubbio, pur riconoscendone altrettante qualità. Ma Un Affare di Famiglia è altra cosa, è davvero un’opera che non va perduta proprio per la capacità di Kore-eda di affrontare e svolgere un argomento molto complesso-per essere precisi più argomenti- con una semplicità che è propria di chi il racconto lo ha insito nelle proprie vene. Per rispetto dovuto a chi non ha ancora avuto la fortuna di gustare la Palma d’Oro di Cannes non racconteremo la trama, limitandoci ad annotare che tutto ciò che viene mostrato nella prima parte verrà ribaltato nella seconda, lasciando inalterato quello scontro voluto dal regista tra ciò che sembra e ciò che è nella realtà. Ma tra simulazione e il suo contrario il confine in questo film diventa appunto labile, comportando una profonda riflessione che riesce, pur facendo a fette il concetto di famiglia, ad esaltarlo.

Il Giappone mostrato da Kore-eda è quello della marginalità composto da individui che vivono nascosti in abitazioni troppo piccole e fatiscenti, trascorrendo le giornate tra improbabili lavori saltuari, ninfetta di un peep show castigato o muratore occasionale, occupazioni che saltano all’improvviso, pensioni di vedovanza che arrivano puntuali, bimbi educati a rubare da chi senza pentimento e un’incoscienza quasi innocente sostiene che ciò che ancora non è stato acquistato nei negozi è di tutti e di nessuno e quindi si può prendere. Il ritratto della famiglia, però, non è mai impietoso. L’autore si pone al di sopra dei giudizi. Limita il proprio operato a far vivere questo nucleo scombinato e squinternato senza condannare o emettere sentenze. Così ci si trova di fronte a un’allegra combriccola la cui ansia esistenziale è quella di dare un significato all’essere genitori e figli, al rapporto di sangue, all’armonia e diventa difficile per chi osserva il film non provare simpatia istintiva per i suoi protagonisti. Il problema è che si tratta di una famiglia molto particolare e quando l’enigma verrà risolto con un perfetto pugno da kappao il dato reale non potrà fare altro che accentuare la dicotomia. Non tanto tra ciò che è giusto o sbagliato quanto tra ciò che è meglio o peggio.

Le domande poste sono innumerevoli. L’umanità di Un Affare di Famiglia è vedova, abbandonata. L’analisi sociale di Kore-eda malgrado la leggerezza narrativa si mostra impietosa e amara come se il Giappone stia faticando a recuperare i propri principi fondanti, spazzati dal sisma di una contemporaneità che ha imposto chiusure individuali in se stessi, narcisismo ed egoismo. Così gli sgangherati e fragilissimi protagonisti del film paiono trasformarsi negli ultimi resistenti o nei primi innovatori, capaci di una catarsi conclusiva in cui le maschere cadranno ed ognuno non potrà più fingere. Ripiombando nella condizione della perdita e dell’assenza ma anche del riconoscimento di un’avventura esistenziale che ha indicato una via, che ha creato un valore. Interpretato da un gruppo di attori spumeggianti, Kirin Kiki nonna Shibata nel film è morta pochi giorni fa, Un Affare di Famiglia ha negli sguardi dei due bimbi degli Shibata l’ottica dell’autore stesso. Sono loro che osservano e analizzano senza parlare e saranno loro a determinare il destino della famiglia stessa.

Nel precedente Ritratto di Famiglia con Tempesta Kore-eda giungeva a una conclusione drammatica di assoluto disincanto nei confronti dell’istituzione familiare. I suoi componenti erano immutabili, nemmeno gli sconvolgimenti naturali potevano cambiarli e modificare il loro destino. Quell’opera, interessante ma dalla narrazione fin troppo piatta per i palati occidentali e con un’aria di già visto, decretava la morte definitiva del nucleo. Prendendo spunto da quella tesi il regista con questo suo ultimo film evolve la teoria, creandone l’alternativa. La distruzione del concetto di famiglia non può portare ad altro che alla sua riproposizione sotto forme differenti. Non è una riflessione sociale innovativa ma è come viene sviluppata da Kore-eda che ne determina la forza e contemporaneamente il logico fallimento. Una magnifica, strampalata avventura e ancora una volta amare impossibilità.

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